Reware, i computer usati riprendono vita in nome della sostenibilità

Scritto da Antonello Salerno
Giornalista

Il socio lavoratore della cooperativa e impresa sociale Nicolas Denis: “Con la nostra attività preserviamo le risorse naturali e preveniamo la produzione di rifiuti. Sostenendo con il progetto Pc4Change l’attività e i progetti di diverse realtà del terzo settore”

Donare i computer aziendali da dismettere a scuole, associazioni o a persone che possano averne bisogno è la dimostrazione di una buona intenzione, ma non è di per sé un gesto risolutivo dal punto di vista sociale o ambientale. Perché potrebbe trattarsi di dispositivi che non avranno una grande prospettiva di vita o che non sono abbastanza performanti, e quindi saranno destinati velocemente alla discarica. Per ottenere il massimo da un’attività di questo genere – evitando di creare rifiuti elettronici e allungando al massimo la vita dei device – sarebbe importante prima rigenerare i Pc o le workstation, trovando una formula per rendere questa attività sostenibile anche dal punto di vista economico. È la mission di ReWare, cooperativa e impresa sociale con sede a Roma, in via del Forte Tiburtino, fondata nel 2013 da Nicolas Denis assieme a Paolo Schettini e Maori Rossi Fossati, che in questa intervista racconta il percorso che ha portato alla nascita di questa realtà e gli obiettivi per il futuro.

Di cosa parliamo?

Nicolas, come nasce Reware e quali sono le sue caratteristiche principali?

Il nucleo storico da cui ha preso origine quest’esperienza si è formato negli anni ’90: in quel periodo infatti eravamo molto attivi nella comunità hacker, nell’accezione positiva del termine. Inizialmente ci occupavamo di raccogliere computer guasti, di ripararli e di donarli a chi ne aveva bisogno, e nel 2007, come soci della cooperativa Binario Etico, abbiamo fondato l’Officina informatica. Da quell’esperienza, dopo sei anni, nel 2013, è nata Reware, con la mission della rigenerazione. A gennaio festeggeremo il decennale dalla fondazione, ed è bello vedere che eravamo partiti in tre con un fatturato di 60mila euro, e oggi siamo in otto con un fatturato da un milione. In tutta la nostra storia abbiamo sempre cercato di conciliare la sostenibilità economica dell’azienda, con un approccio business oriented e senza sostegni pubblici, con la sostenibilità ambientale e sociale. Quindi da una parte siamo impegnati a prevenire la creazione di rifiuti elettrici ed elettronici rigenerando i device che ci vengono affidati – desktop, portatili, monitor, workstation e accessori – e dall’altra in una serie di progetti sociali con i nostri partner: oggi arriviamo a sostenerne una decina nell’arco dell’anno. 

Di che tipo di progetti si tratta?

Parliamo di informatizzazione delle scuole pubbliche, a cui riusciamo anche a donare i computer grazie al sostegno delle aziende che ce li affidano, ma anche di progetti di sostegno per le famiglie che non hanno le possibilità economiche per dotare i propri figli di strumenti per la didattica a distanza, una vera e propria emergenza sociale soprattutto nel periodo dei lockdown. Su questo abbiamo lanciato una campagna specifica a marzo 2020 e abbiamo ricevuto una risposta importante da diverse grandi aziende, riuscendo a donare alle scuole, complessivamente, un migliaio di asset informatici. Promuoviamo inoltre il progetto Pc4change, che mettiamo a disposizione delle associazioni non profit con cui collaboriamo. In pratica destiniamo il 20% della vendita dei dispositivi che ci sono stati donati dalle aziende per sostenere progetti nel campo umanitario, del sociale, della solidarietà e della prevenzione ambientale. E sono proprio i donatori a decidere a quale associazione vogliono destinare i proventi che derivano dalla vendita pc che noi rigeneriamo. Fino a oggi siamo riusciti indirizzare contributi per poco più di 11mila euro con 13 finanziamenti, gestendo sette progetti di dismissione che hanno portato a rigenerare 936 apparecchiature.

Qual è la rilevanza del vostro impegno per la sostenibilità ambientale?

A oggi siamo in grado di prendere migliaia di computer e dispositivi dalle aziende, li rigeneriamo e in pratica ne raddoppiamo la vita. Ogni volta che ne vendiamo uno sostituiamo l’acquisto di un Pc nuovo con l’acquisto di un device rigenerato. Se consideriamo che per produrre un Pc servono tra i 1.500 e 2mila chili di risorse naturali – per l’80% si tratta di acqua, per il 10-15% di materiali che derivano dalla lavorazione del petrolio e per il resto di minerali – dal momento che rigeneriamo in un anno circa 3mila computer questo vuol dire che riusciamo a salvare quasi 6mila tonnellate di risorse naturali in 12 mesi. Niente male per una piccola società con sede in una zona periferica.

Questo sul versante del consumo di risorse naturali. E per i rifiuti?

Riusciamo a evitare che i Pc di cui le aziende si liberano vadano a finire troppo presto nel ciclo dei rifiuti: se consideriamo una media di quattro kg per dispositivo, in un anno contribuiamo a evitare la produzione in un anno di 12 tonnellate di rifiuti elettronici.
La nostra attività consiste nella prevenzione della creazione di rifiuti, non nel loro trattamento, dal momento che in Italia mancano normative specifiche per questo settore. Soltanto per fare un esempio, in Svezia – dove invece la normativa esiste – il nostro principale fornitore è un’azienda simile a noi che però conta su 200 dipendenti e su un fatturato tra le 50 e le 100 volte superiore al nostro.

Quanti competitor avete in Italia?

Ci sono alcuni competitor, diciamo in tutto una decina, ma con dei distinguo. In Reware, ad esempio, siamo gli unici che hanno sviluppato l’attività sulla base dei principi dell’impresa sociale. Molti sono soltanto rivenditori, che per la rigenerazione dei device si affidano a società esterne, mentre noi facciamo tutto in house.

Foto di Simone Foschi

Che tipo di legame siete riusciti a creare con il territorio in cui operate?

C’è un legame molto stretto a cui teniamo particolarmente. Ad esempio, siamo noi a informatizzare le scuole del quartiere, e collaboriamo attivamente con tutte le realtà del terzo settore della nostra zona, con le parrocchie e le associazioni. Uno dei motivi di questo radicamento è anche il fatto che leghiamo il nostro progetto ai principi dell’economia circolare, cercando di privilegiare i rapporti con le realtà locali e limitare ogni volta che si può i trasporti su lunghe distanze.

Come è cambiata nel tempo l’attenzione verso la vostra attività?

Per spiegarlo mi piace fare il paragone con l’alimentazione biologica. Venti anni fa si trattava di una nicchia, di pochi consumatori con idee radicali, e ora è diventata mainstream. Anche a noi è successo così. All’inizio ci prendevano per matti, non si dava nessun valore all’usato, mentre oggi comprano da noi anche diverse grandi aziende. Questo perché la crisi climatica e le emergenze che abbiamo vissuto di recente hanno contribuito ad aumentare in generale l’attenzione verso tutti gli aspetti della sostenibilità. Inoltre, il nostro lavoro si è ormai standardizzato: oggi vendiamo computer rigenerati con qualità identiche al nuovo, e il consumatore non ha più “paura”. Al punto che non abbiamo mai abbastanza computer per soddisfare le richieste che ci arrivano.

Vendete soltanto alle aziende o anche ai privati?

Sia alle une che agli altri, in proporzione del 50% a ognuno. Per i privati abbiamo un negozio su strada e una vetrina di e-commerce, e ci siamo ormai specializzati nella fascia alta del mercato: i dispositivi aziendali, infatti, offrono di solito prestazioni più alte rispetto ai semplici prodotti consumer, e una volta rigenerati diventano interessanti, anche dal punto di vista economico, per professionisti come architetti o ingegneri. Ma abbiamo anche una fascia di Pc economici. E la prova della qualità del nostro lavoro viene dal fatto che una fetta importante dei nostri clienti è composta da informatici, che valutano i dispositivi con cognizione di causa. Da parte nostra, inoltre, facciamo ciclicamente analisi di mercato per verificare che i nostri prodotti siano effettivamente competitivi anche dal punto di vista del prezzo finale.

Si sente anche nel vostro settore la carenza di competenze specialistiche?

Direi proprio di sì. Anche per questo investiamo in formazione. A luglio, ad esempio, ho coordinato un corso finanziato dalla Città Metropolitana di Roma per operatori dell’usato professionale, e ho contribuito a fare in modo che gli operatori che fanno il nostro lavoro siano riconosciuti nell’elenco delle professionalità riconosciute dalla Regione Lazio. Abbiamo fatto anche corsi negli istituti professionali, guardando al futuro: in Reware siamo otto persone attorno ai 40 anni, e inizia a sentirsi la necessità delle nuove leve.