Il destino del Monte Mtelo e della tribù dei Pokot
Scritto da
Gaia Dominici
Storyteller, vive nella savana in Kenya insieme a suo marito e a sua figlia raccontando la loro vita Maasai, portando il suo punto di vista su scelte di vita sostenibili
La storia di Salvatore, un italiano che vive in West Pokot e riforesta una delle aree più remote del Pianeta
Ho conosciuto Salvatore per caso diversi anni fa in una delle sale d’aspetto dell’ambasciata italiana a Nairobi. All’epoca entrambi vivevamo in due delle zone più remote del paese: io nella savana in terra maasai ai piedi del Kilimanjaro, lui al nord nella terra dei Pokot ai piedi del Monte Mtelo. Ricordo che all’epoca indossavamo ancora le mascherine. Lui la abbassò e con un sorriso mi chiese: “Scusa ma tu sei Siankiki?”
L’attesa era lunga per entrambi e visto che lui conosceva già la mia storia, gli chiesi in cambio di raccontarmi un pò della sua e credo che valga la pena davvero di ascoltarla.

Salvatore Correddu, nato in Sardegna nel 1982, è venuto in Kenya per la prima volta nel 2015 con la speranza di cambiare vita dopo un’altra esperienza all’estero che non l’aveva entusiasmato. Si trasferì a Kapenguria in West Pokot e vi rimase fino al 2016. Kapenguria capoluogo della regione West Pokot, dista da Nairobi 11 ore circa in macchina e si trova nel nord-ovest del Kenya. Ancora oggi è considerata una delle zone più rurali e remote dell’intero paese.
A causa però della mancanza di titoli di studio adeguati che gli consentissero di trovare lavoro nella cooperazione internazionale, Salvatore nel 2016 si trova a malincuore costretto a lasciare il Kenya. Una volta rientrato in Sardegna, all’età di 36 anni, si iscrive nuovamente all’università, a Sassari, per conseguire una laurea in Sicurezza & Cooperazione Internazionale ed è proprio durante il suo terzo anno di università che riceve la telefonata che stava da cosi tanto aspettando: una ONG kenyana cercava una persona che potesse fare delle ricerche sulla biodiversità e portare avanti progetti per la riforestazione nell’area del Monte Mtelo in West Pokot al confine con l’Uganda.
Il Monte Mtelo è la quinta montagna più alta in Kenya (3.336 metri). Nella zona circostante vivono circa 33 mila persone. È un’area di 8 mila ettari suddivisa in 15 sublocations. La tribù originaria di questa zona è quella dei Pokot. Ancora oggi essendo una zona molto rurale, isolata e poco considerata dai turisti, i Pokot parlano esclusivamente la loro lingua, il Pokot, e pochissimo swahili. Vivono prevalentemente di pastorizia e per il fabbisogno quotidiano coltivano mais e sukuma (verdura locale). È una popolazione dove tutt’oggi vige la poligamia e pur essendo una tribù molto amichevole sono in aperto conflitto, da moltissimi anni, con la tribù dei Turkana, popolazione che vive nella Turkana County a pochi chilometri dal Mount Mtelo.
Siamo nel 2021 quando Salvatore lascia nuovamente la sua terra natale e si trasferisce, questa volta in via definitiva, in West Pokot. Lì inizia a condurre diverse ricerche sia dal punto di vista della biodiversità sia dal punto di vista filantropico. Mi spiega infatti, durante la nostra chiacchierata, che doveva prima capire i modi e gli usi della popolazione locale. Era fondamentale, al fine di mettere in atto progetti sostenibili di lunga durata, comprendere come poter adattare lo stile di vita indigeno ai progetti di riforestazione di Saving Forest, l’ONG per la quale Salvatore tutt’ora lavora.
Sono progetti di riforestazione sostenibili ed etici su un periodo di tempo molto lungo: l’obiettivo è quello di piantare alberi per rigenerare e ricreare l’ecosistema locale. Ma non solo: l’obiettivo finale è quello di educare la popolazione locale stessa per renderla perfettamente in grado di proteggere l’ambiente in cui vive senza aiuti di terze organizzazioni.
Dalle ricerche di Salvatore emersero subito dei dati preoccupanti: la popolazione locale non aveva né mezzi né conoscenze circa l’utilizzo di fonti di energia sostenibile con un impatto ambientale ridotto e dunque continuavano, nonostante le condizioni tremende in cui versava il loro territorio, ad usare carbone e legna per azioni quotidiane come scaldare l’acqua o cucinare.
L’utilizzo del carbone ha due principali funzioni per le popolazioni locali: da una parte il commercio in quanto moltissime donne lo vendono al mercato, e quindi diventa una vera e propria fonte di reddito; e poi il consumo personale poiché il carbone ha una fonte di calore molto più alta rispetto al legno e quindi anche una durata maggiore, per cui viene prediletto rispetto ad altre opzioni. La legna, secondo i dati raccolti da Saving Forest, viene usata solo per facilità e reperibilità ma è massiccio il suo impiego in campi come l’edilizia, l’architettura, l’artigianato.
Tutto questo, oltre al deterioramento climatico globale, racchiude gli elementi principali della deforestazione in West Pokot.
Un altro fattore determinante, secondo Saving Forest, che sta contribuendo ad una sempre più aggressiva deforestazione della zona è la poligamia e la conseguente espansione demografica. Quante più mogli e figli un uomo avrà, quante più terre necessiterà. Quelle terre verrano disboscate per costruire case o adibirle a pascolo per gli animali.
Così come l’espansione demografica, anche il sovrappopolamento di animali sta contribuendo al deterioramento del territorio. Le capre, per esempio, sono animali che si adattano a qualsiasi ambiente e temperatura, e anche in caso di siccità trovano sostentamento. Come? Mangiando le radici degli alberi morbidi.
Durante la stagione secca poi, il calpestio di un numero elevatissimo di animali crea un compattamento del terreno anormale. Il terreno secco compattato con le prime piogge non riesce a filtrare acqua. L’acqua non penetrando all’interno del terreno invece che nutrirlo lo erode. Questa erosione porta anche ad una conseguente mancato approvvigionamento di acqua piovana nelle sorgenti di acqua sotterranee, fondamentale per il nutrimento di piante e alberi.
L’obiettivo finale di Salvatore e Saving Forest, entro il 2027, è quello di ripiantare un milione di alberi sul Monte Mtelo e nelle zone circostanti.
Tramite analisi accurate del terreno, Salvatore e il suo team sono riusciti a catalogare ben 32 specie pre-esistenti di piante e alberi e altre 10 non più esistenti ma che Saving Forest vorrebbe riuscire a ripristinare nell’ecosistema locale.
Le piante, mi spiega Salvatore, vengono prese in loco non solo per abbattere i costi di trasporto, ma anche perché se le piante venissero acquistate in altre zone avrebbero difficoltà ad adattarsi ad una altitudine cosi elevata in quanto il dislivello tra la zona limitrofa al Monte Mtelo e quella della città è di circa 1000 metri. Inoltre, prosegue Salvatore, il rischio di malattie tra diversi ecosistemi sarebbe troppo alto. Questo è il motivo per cui Saving Forest sta lavorando anche alla creazione di vivai locali dove la popolazione autoctona possa imparare a coltivare alberi e piante e magari poi rivenderle ad altre eventuali organizzazioni.
Chiedo a Salvatore, però, quali siano nella pratica i modi per rallentare adesso la deforestazione causata da un uso fuori controllo di carbone e legna. Salvatore mi spiega che la strada è principalmente una: implementare la conoscenza e l’utilizzo di fonti di energie alternative al carbone e alla legna. Per ridurre l’impatto ambientale si dovrebbero utilizzare soluzioni alternative per la generazione di energie destinate al fabbisogno quotidiano e Salvatore mi spiega che ne esistono due molto valide:
- ECO STOVE: che riduce del 70% l’utilizzo di legno e carbone poiché il calore generato dal legno resta imprigionato nella struttura di mattoni e l’energia che viene prodotta mantiene il calore vivo più a lungo e quindi si necessita meno legna per tenerlo continuamente acceso e vivo.
- SOLAR STOVE: che riduce del 100% l’utilizzo di legno e carbone in quanto si avvale solamente dell’energia solare. I solar stove sono pannelli di alluminio che riflettono energia solare direttamente sul luogo predisposto per cucinare. Hanno un costo molto basso e durano decenni e, a differenza dei pannelli solari, non richiedono manutenzione costante.
Tramite fondi e donazioni, Saving Forest è riuscita ad equipaggiare molte persone autoctone con queste due alternative.
Chiedo a Salvatore che cosa si augura per il futuro e mi risponde che l’unica speranza che ha nel suo cuore è quella di star portando avanti un lavoro che un domani continuerà anche senza di lui.
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La popolazione autoctona è colei che davvero possiede quei territori e io mi auguro di lasciare semplicemente dei validi strumenti per prendersene cura per il maggior tempo possibile.