Fast Fashion: le alternative più green

Scritto da Lisa Casali
Scienziata ambientale, blogger e scrittrice. Si occupa di rischi e danni ambientali e crede nell’importanza del nostro impegno quotidiano per vivere una vita più sostenibile, con il minor impatto possibile sull’ambiente

Ogni anno nell’Unione Europea vengono gettati via 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, circa 12 kg a persona.

I principali responsabili siamo noi e i nostri comportamenti d’acquisto ma senza dubbio anche il fast fashion ha avuto un ruolo importante nel favorire tali comportamenti. Il fast fashion è un metodo di produzione di abiti di bassa qualità a prezzi molto bassi che prevede il lancio continuo e a breve distanza di nuove collezioni. Si tratta infatti di abbigliamento usa e getta, con capi di scarsa qualità, utilizzati una stagione, destinati ad essere buttati via dopo pochi utilizzi. Il fast fashion ha avuto un ruolo deciso nel trasformare l’industria della moda, rendendola più economica e accessibile. Tuttavia, dietro capi super economici e tendenze di brevissima durata si cela un enorme impatto ambientale con effetti devastanti e condizioni di lavoro disumane.
La produzione di fast fashion riguarda grandi catene di abbigliamento che utilizzano materiali economici e processi di produzione spesso inquinanti. I capi si rovinano dopo pochi lavaggi e la continua rotazione delle collezioni incoraggia l’acquisto di nuovi pezzi e la produzione di una grande quantità di rifiuti per lo più di vestiario, ma che riguardano anche scarpe e accessori.

L'indagine di Greenpeace Italia

L’unità Investigativa di Greenpeace Italia per quasi due mesi, in collaborazione con Report, ha tracciato alcuni capi d’abbigliamento di catene del fast-fashion nei kilometri percorsi dall’acquisto su piattaforme online fino al reso. Il rapporto “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast-fashion che inquina il pianeta” è il risultato di questa indagine. Per condurre l’indagine, sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento del fast-fashion sulle piattaforme e-commerce di otto tra le principali aziende del settore. Greenpeace e Report hanno quindi nascosto localizzatori GPS nei vari capi e ne hanno effettuato il reso.  È stato così possibile tracciarne gli spostamenti e scoprire dettagli relativi a mezzi di trasporto usati e filiera logistica.

I capi hanno percorso nel complesso circa 100.000 km attraverso 13 Paesi europei e la Cina in 58 giorni.

I capi di abbigliamento oggetto dell’indagine sono stati venduti e resi complessivamente 40 volte. La distanza media percorsa da ogni capo è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve per singolo capo è stato di 1.147 km e il più lungo di 10.297 km. Rispetto ai mezzi di trasporto il più usato è risultato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. Rispetto all’impatto ambientale le emissioni medie di CO2 per il trasporto di ogni ordine e reso è stato stimato in 2,78kg. Infine per il confezionamento e il riconfenzionamento di ogni capo a causa del reso sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone.

Ma l’impatto complessivo del settore della moda è ben più grave e devastante e i resi non ne costituiscono che una minima parte. Si tratta infatti di un’industria con processi produttivi che possono essere estremamente inquinanti e che richiede grandi quantità di materie prime. A livello globale, dal 2000 al 2015 la produzione e il consumo di prodotti tessili sono raddoppiati e potrebbero triplicare entro il 2030. Il fast fashion e l’ultra fast-fashion costituiscono in tal senso dei trend preoccupanti sia per l’impatto sull’ambiente sia per le condizioni di lavoro.

Un’immagine chiara di quello che sta succedendo nel settore della moda e un messaggio di urgenza nel fare qualcosa è quanto emerge anche dalla docuserie “Junk – Armadi pieni”. Difficile dimenticare, per chi l’ha vista, l’immagine delle infinite discariche/città di abiti buttati via in Asia e in Africa.

Comprare meno

Di fronte a questi numeri e soprattutto a questa emergenza, la cosa prioritaria da fare come consumatori è comprare meno. Non vi è infatti nessuna alternativa sostenibile che sia paragonabile alla scelta di non acquistare o comunque comprare solo l’indispensabile. Per chi è cresciuto con l’abitudine di acquistare senza pensieri, visto il basso prezzo dei capi, oggi può essere difficile mettere in discussione questa abitudine e imparare a dosare gli acquisti, selezionare quello che serve davvero.

Opzioni più sostenibili

Una volta selezionato l’indispensabile possiamo andare a caccia delle opzioni più sostenibili.

Tra queste riveste un ruolo importante la seconda mano. L’usato infatti non richiede risorse per essere prodotto e non produce gas serra. A seconda però dei canali con cui acquistiamo usato, il capo potrebbe percorrere numerosi km producendo così emissioni inquinanti e gas serra. Per ridurre al minimo l’impatto dell’usato e far sì che sia davvero una scelta green è importante acquistare seconda mano di prossimità, ovvero in negozi di quartiere o da persone che vivono nella nostra zona.

Qualunque cosa – e per qualunque età -può essere acquistata usata, non solo abbigliamento quindi ma anche accessori di ogni tipo, mobili e anche prodotti per bambini. Oltre ad avere un impatto ambientale nettamente inferiore a un capo nuovo, l’usato ha in genere anche un costo più basso ed è più sicuro per la salute. Un capo che ad esempio è stato lavato e usato più volte prima del nostro acquisto ha un rischio molto più basso di un capo nuovo di rilasciare sostanze pericolose per la nostra salute.

È importante infatti non dare per scontato che quello che acquistiamo sia sempre sicuro e privo di rischi e questo vale sia per i tessuti che teniamo per ore a contatto con la pelle ma anche per quegli oggetti e mobili che possono rilasciare formaldeide o altri composti potenzialmente pericolosi.

L'impatto dei tessuti

Nella scelta di un capo è inoltre importante fare attenzione all’origine e tipologia delle fibre. Quelle naturali come cotone, lino e canapa spesso risultano più costose delle fibre sintetiche, e hanno in genere un impatto ambientale superiore legato alla loro produzione. Se però si guarda all’intero ciclo di vita, ad esempio di un capo in cotone rispetto a uno sintetico, si scopre che quest’ultimo:

  • ad ogni lavaggio rilascia microplastiche;
  • spesso sono presenti PFAS (poliperfluoroalchilici) per migliorare le performance del tessuto che però sono pericolosi per la salute;
  • a fine vita mentre le fibre naturali sono del tutto biodegradabili, al contrario i capi sintetici nel degradarsi inquinano acque e terreno e possono arrecare gravi danni a specie e habitat naturali.

In un’epoca in cui la consapevolezza ambientale e sociale è sempre più importante, la moda usata offre un’opportunità tangibile per trasformare il nostro modo di consumare e contribuire a creare un futuro più sostenibile per tutti.