Alkelux, dalla liquirizia l’imballaggio che aumenta la shelf life degli alimenti

Scritto da Ettore Benigni
Giornalista

Matteo Poddighe, ceo e founder della startup di Sassari: “Il progetto del nostro additivo per il packaging è ormai nella fase industriale, grazie al sostegno e alla guida del programma di accelerazione FoodSeed di Cdp e di Eratable Adventures. Stiamo lanciando un round seed da 2 milioni di euro per costruire il primo impianto pilota”

“L’idea di dare vita ad Alkelux è nata durante il mio periodo di dottorato all’università di Sassari. Avevo vinto una borsa di studio a tema sull’ingegnerizzazione di nanomateriali a base di carbonio con proprietà antimicrobiche e antivirali, con l’obiettivo di utilizzarli per contrastare la diffusione del Covid. Durante le mie attività di ricerca mi sono imbattuto in una molecola, contenuta nella pianta della liquirizia, sulla quale esistevano soltanto due articoli in letteratura: un terreno fertile da esplorare”.

A parlare è Matteo Poddighe, founder e ceo di Alkelux, la startup specializzata nel campo dei bio-additivi, da cui è nato il progetto di un nanopolimero che, se integrato nel packaging dei prodotti ortofrutticoli, ne può allungare sensibilmente la vita sugli scaffali.

Di cosa parliamo?

Matteo, come sei passato all’azione?

L’idea si è strutturata dopo l’incontro con David Sanna, che si era unito al mio gruppo di ricerca per un periodo post-doc. Lui aveva già fondato una startup che produce imballaggi dagli scarti di lavorazione del pesce, e insieme abbiamo iniziato a ragionare sul fatto che sarebbe stato interessante riuscire a lavorare non sulla liquirizia raffinata, ma sugli scarti di lavorazione della liquirizia, per dare vita a un imballaggio attivo che allungasse la shelf life degli alimenti, in particolare dei prodotti ortofrutticoli.

Come hai fatto a creare un’azienda a partire da questa idea?

Ho scelto di sviluppare il progetto per conto mio, fuori dai progetti universitari, pagando di tasca mia i laboratori. Dopo più di due anni dedicati alla ricerca, nel 2024 – una volta ottenuti i primi risultati – siamo passati dal livello di laboratorio a quello preindustriale, fondando la startup, insieme a Davide Sanna, Carlo Usai ed Emina Bilanovic. Io e Davide, che ci occupiamo in particolare della parte tecnica, siamo a Sassari, dove abbiamo i nostri laboratori, mentre Carlo ed Emila, che si occupano della parte commerciale, fanno base a Cagliari.

Chi ha creduto nella vostra idea?

Una volta costituita la startup, il nostro progetto ha vinto il contest dell’acceleratore FoodSeed di Cdp, e tra gli investitori è entrata la società spagnola Eatable Adventures: grazie al loro sostegno siamo riusciti a scalare il progetto a livello industriale. Ora stiamo ultimando i test e siamo pronti ad aprire un nuovo round di investimento, che sarà un round seed da due milioni di euro: i fondi ci serviranno ad aprire il nostro impianto pilota a livello industriale per iniziare a soddisfare le richieste e le manifestazioni di interesse che abbiamo ricevuto da ogni parte del mondo, comprese Thailandia e Sud America.

Quali saranno i passi successivi?

Se riusciremo a chiudere il round entro la fine dell’anno, nel 2026 riusciremo ad arrivare sul mercato con i nostri prodotti, che d’altra parte sono già stati validati a livello industriale e reale con aziende del settore, in particolare dell’ortofrutta. Abbiamo iniziato dalle fragole, che hanno una durata particolarmente ridotta una volta imballate, perché abbiamo pensato che questo avrebbe potuto rappresentare un contributo per evitare sprechi alimentari, oltre che un vantaggio economico per chi vende e per chi acquista per rivendere, e una convenienza importante anche per il consumatore finale. Nel frattempo, stiamo ultimando tutte le certificazioni per la commercializzazione, per farci trovare pronti quando sarà il momento di partire.

Questa tua iniziativa imprenditoriale è nata anche da un impegno per la sostenibilità?

C’è di sicuro un legame con sostenibilità. Mi sono diplomato nel 2011 con specializzazione in chimica, e dopo essermi iscritto alla facoltà di farmacia ho lasciato per iscrivermi a un master sulla bonifica dei siti inquinati. Finito il master sono andato a fare sei mesi presso un’azienda di raccolta rifiuti in Toscana, e lì ho preso contatto con tutto il mondo che c’è dietro il riciclo e il riuso dei materiali. Mi era venuta l’idea di aprire in Sardegna una azienda per la raccolta di oli esausti, ma non si sono verificate le condizioni giuste. Ho comunque proseguito gli studi passando alla facoltà di chimica, ottenendo la laurea, la specializzazione e il dottorato. Ho anche seguito corsi per l’imprenditoria, un’esperienza grazie alla quale sono entrato in contatto con persone che mi hanno guidato nel mondo dell’economia circolare. L’idea di Alkelux è nata proprio quando stavo abbandonando la speranza di diventare imprenditore e pensavo di dedicarmi soltanto alla ricerca.

Qual è il vostro legame con la Sardegna?

Una cosa che ci ha emozionato è che quando Alkelux ha iniziato ad avere un po’ di visibilità sui media tante realtà locali hanno iniziato a contattarci e a proporci possibili collaborazioni. Oggi lavoriamo con aziende di diversi settori che richiedono il nostro aiuto per sviluppare nuovi prodotti o migliorarne di altri. Ci piacerebbe riuscire a creare una rete nella nostra regione, riuscendo ad avere sinergia con i grandi player ma anche con i piccoli produttori locali.