Selvicoltura e cambiamento climatico: chi aiuta chi?

Scritto da Rete Clima
Ente non profit che accompagna le aziende in percorsi di sostenibilità e di decarbonizzazione

La selvicoltura rappresenta una disciplina chiave nel contesto della gestione sostenibile delle risorse forestali, coinvolgendo pratiche e strategie mirate a garantire la salute, la diversità e la resilienza degli ecosistemi boschivi

Fondata su solidi principi tecnico-scientifici, la selvicoltura si occupa della gestione attiva delle foreste, assicurando un equilibrio tra sfruttamento e conservazione. Ad oggi le sfide emergenti, come il cambiamento climatico, richiedendo un adattamento continuo delle pratiche gestionali.

La loro importanza è sottolineata anche a livello internazionale dove, gli accordi come quello di Parigi sottolineano la necessità di gestire le foreste in modo sostenibile per contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Inoltre, la ricerca scientifica e il monitoraggio costante delle risorse forestali sono fondamentali per sviluppare approcci innovativi e basati su evidenze, garantendo la tutela a lungo termine di questi importanti ecosistemi.

L’accordo di Parigi è un accordo internazionale sul cambiamento climatico adottato il 12 dicembre 2015 durante la 21ª Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).

L’obiettivo principale dell’Accordo di Parigi è quello di limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 2 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali e di perseguire sforzi per limitare l’aumento a 1,5 gradi Celsius. L’Accordo prevede una serie di impegni e azioni volte a raggiungere questo obiettivo: gli Stati firmatari si impegnano a implementare misure per ridurre le emissioni di gas serra, adattarsi ai cambiamenti climatici e fornire supporto finanziario e tecnologico ai paesi in via di sviluppo per affrontare il cambiamento climatico.

L’Accordo di Parigi si basa sul principio di responsabilità comune ma differenziata, riconoscendo che i paesi hanno responsabilità comuni nel contrastare il cambiamento climatico, ma in base alle loro capacità e livelli di sviluppo, i paesi hanno impegni diversi. Inoltre, l’Accordo prevede la mobilitazione di finanziamenti a sostegno delle azioni di mitigazione e adattamento nei paesi in via di sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere una transizione verso economie a basse emissioni di carbonio e resilienti al cambiamento climatico. L’Accordo di Parigi ha ricevuto un’ampia adesione internazionale, con 196 paesi che lo hanno firmato e 190 paesi che lo hanno ratificato.

È considerato un importante passo avanti nella lotta contro il cambiamento climatico e nell’attuazione di azioni globali per affrontare questa sfida globale. In Italia, i selvicoltori hanno sviluppato linee guida per una gestione forestale responsabile al fine di migliorare la sostenibilità ambientale in tutte le sue componenti. È fondamentale che la gestione forestale si adatti ai cambiamenti in corso, poiché il cambiamento climatico comporta un aumento delle piogge torrenziali, che possono causare allagamenti ed erosione, ma anche prolungati periodi di siccità.

La maggiore frequenza di eventi climatici estremi ha importanti effetti ecologici sugli ecosistemi forestali italiani. In questo contesto, l’abbandono delle pratiche selvicolturali può avere conseguenze negative sull’esposizione ai rischi naturali. Le foreste che non vengono gestite attivamente, in particolare quelle abbandonate dopo un’intensa gestione precedente (come fustaie non diradate o cedui non gestiti in modo ordinario), possono sviluppare una struttura che limita la capacità di contrastare fenomeni di dissesto idrogeologico, come le cadute di massi aumentando il rischio per le persone che vivono o frequentano le aree montane.

Questi esempi evidenziano il ruolo cruciale della gestione forestale nel mantenere elevati livelli di biodiversità, sia a livello paesaggistico che all’interno dei singoli boschi, nell’aumentare la resilienza e la resistenza delle comunità vegetali agli eventi estremi (ad esempio, la vulnerabilità dei rimboschimenti di pino o la problematica delle specie invasive) e nell’assicurare che le foreste continuino a fornire beni e servizi che migliorano la qualità della vita delle persone.

Secondo fonti come la FAO (Food and Agricolture Organization) e il MASAF (Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste), il loro ruolo è cruciale nell’assicurare la sostenibilità ambientale e la fornitura continua di beni e servizi ecosistemici tra cui, appunto, l’assorbimento di carbonio. Le foreste esercitano infatti un’influenza sul clima a scala globale e svolgono un ruolo chiave nel ciclo biogeochimico del carbonio. I Paesi che hanno aderito alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC – United Framework Convention on Climate Change) e agli accordi successivi utilizzano i dati degli inventari forestali nazionali per valutare l’assorbimento di carbonio derivante dall’uso del suolo, dai cambiamenti nell’uso del suolo e dalle foreste.

Per l’UNFCCC e l’accordo di Parigi, cinque serbatoi terrestri sono rilevanti per la stima del carbonio immagazzinato e delle sue variazioni: il suolo, la lettiera, la biomassa ipogea, la biomassa epigea e il legno morto. L’”Inventario forestale nazionale italiano” (INFC 2015) ha stimato il contenuto di carbonio organico in quattro dei cinque serbatoi, confermando il ruolo primario del suolo, che rappresenta il 57,6% del carbonio organico nei quattro serbatoi nelle foreste italiane.

La stima delle variazioni di carbonio nei suoli forestali è complessa poiché le variazioni previste sono di piccola entità rispetto alle grandi quantità già immagazzinate. INFC2015 ha aggiornato le stime del carbonio presente nella biomassa epigea e nel legno morto, che ammontano rispettivamente a oltre 539 milioni e 30 milioni di tonnellate.

Il concetto di stock e sink di carbonio si riferisce proprio alla quantità di carbonio immagazzinata e alla capacità di assorbire il carbonio presente negli ecosistemi terrestri, come le foreste, il suolo e le praterie. Gli stock di carbonio rappresentano la quantità totale di carbonio immagazzinata mano a mano nel tempo dentro un determinato ecosistema, come le foreste. Include il carbonio presente nel suolo, nella lettiera, nella biomassa epigea, nella biomassa ipogea e nel legno morto.

Questa misura fornisce un’indicazione della quantità complessiva di carbonio che è stata accumulata nell’ecosistema nel corso del tempo mentre i sink di carbonio si riferiscono alla capacità di un ecosistema, come una foresta, di assorbire il carbonio atmosferico. In sostanza, è la capacità dell’ecosistema di agire come una sorta di “pozzo” che rimuove la CO2 dall’atmosfera. Il processo di fotosintesi, in cui le piante convertono il carbonio atmosferico in materia organica, è uno degli elementi chiave di questo meccanismo.

La gestione sostenibile dei sink di carbonio è di fondamentale importanza per la mitigazione del cambiamento climatico, dato che il sequestro comporta la crescita dello stock di carbonio forestale.

A proposito di stock, si stima che in Italia siano sequestrate 59,4 tonnellate/ettaro di carbonio nella fitomassa epigea del bosco (INFC 2015). Il carbon sink, essendo la quantità di CO2 fissata ogni anno può essere calcolata come differenza tra lo stock dell’anno seguente e quello dell’anno precedente, facilmente ricavabile a livello visivo dagli anelli di accrescimento che si formano nel tronco durante la stagione vegetativa.