In mezzo secolo la data della vendemmia ha subito un anticipo circa un mese. Il professor Andrea Pitacco dell’Università di Padova: “Osservare quello che sta succedendo alla vite e al vino offre l’occasione di capire cosa può succedere a tutta l’agricoltura”
La viticoltura può essere un buon punto di riferimento per capire quali potranno essere gli effetti dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale sul mondo dell’agricoltura, e quali saranno i rischi per alcune coltivazioni considerate particolarmente pregiate per il Made in Italy.
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Gli studi internazionali
A fare il punto della situazione sulla viticoltura sono alcuni studi internazionali, come quello che si è guadagnato recentemente la copertina della rivista Science, che ha stabilito come le prime domesticazioni delle uve selvatiche siano avvenute al termine dell’ultima era glaciale, circa 11mila anni fa, quando un clima più mite e più stabile avrebbe facilitato il diffondersi dell’agricoltura.
Secondo gli scienziati del team guidato dall’università di Yunnan (Cina) e dal Laboratorio di genomica vegetale di Shenzhen (Cina), con la collaborazione – per l’Italia – degli atenei di Milano, Milano-Bicocca e di Reggio Calabria, e dell’Istituto di bioscienze e biorisorse (Cnr-Ibbr) di Palermo, i primi due casi di addomesticazione dell’uva possono essere localizzati in aree a mille chilometri di distanza l’una dall’altra: la regione del Caucaso, tra Armenia, Georgia e Azerbaigian, e l’Asia occidentale.
Alle conseguenze dei cambiamenti climatici sul mondo della viticoltura è dedicato lo studio pubblicato da Michael Gross sulla rivista Current Biology:
“Associamo i vini di oggi alla metà meridionale più soleggiata dell’Europa, così come alle regioni del Nuovo Mondo che possono offrire un clima simile al Mediterraneo – scrive l’autore – Tuttavia, a causa degli impatti del cambiamento climatico le zone ottimali per la viticoltura stanno iniziando a spostarsi verso i poli”.
Secondo un modello elaborato nel 2020 da un gruppo di ricercatori dell’università spagnola di Alcalà, se i viticoltori continuassero la loro attività come al solito, coltivando le stesse uve nelle stesse località, perderebbero con il passare del tempo il 56% delle attuali aree viticole nel caso che si riesca a contenere l’aumento delle temperature globali entro i due gradi, e l’85% se l’innalzamento della colonnina di mercurio si innalzasse di 4 gradi.
“Ciò che succede al vino potrebbe succedere a tutta l’agricoltura”
I primi effetti dei cambiamenti climatici sulla viticoltura sono già evidenti, come il fatto che nell’ultimo mezzo secolo il periodo della vendemmia sia “arretrato” di circa un mese. Secondo l’analisi di Andrea Pitacco, docente del dipartimento Dafnae dell’Università di Padova, pubblicata sul sito “Il Bo Live” dell’ateneo veneto:
“Osservare quello che sta succedendo alla vite e al vino offre anche l’occasione di capire cosa può succedere a tutta l’agricoltura. I primi timori sono emersi una trentina di anni fa, prima che l’Ipcc certificasse quello che stava succedendo: il fatto che le maturazioni e le vendemmie fossero gradualmente anticipate è qualcosa che il viticoltore sa da molti anni. Nei primi anni ’60 la vendemmia era all’inizio di ottobre, oggi è anche 30 giorni prima”.
Questo fenomeno potrebbe avere conseguenze anche sulla qualità dei vini:
“I vini più caratteristici del Veneto sono particolarmente a rischio – spiega Pitacco – vini leggeri, freschi, che hanno una certa acidità brillante e accattivante sono oggi messi in crisi dall’aumento delle temperature e da un regime di precipitazioni che sta traballando”.
“Oggi ci rendiamo conto – prosegue – che queste varietà così precoci non sono certamente le più adatte a sostenere il nuovo contesto climatico, perché uve che maturano ad agosto non arrivano ad avere una complessità adeguata. L’uva non è semplicemente acqua e zucchero e il vino non è semplicemente acqua e alcool: uva e vino devono avere una serie di composti secondari che determinano la ricchezza organolettica e quindi anche il valore commerciale. Uve estremamente precoci, come accade oggi, implicano una perdita di quella complessità di colore, tannini, astringenza e acidità che ha fatto la qualità dei nostri vini storici”.
Per tentare di mantenere la qualità dei vini, secondo lo studioso, difendendoli dai cambiamenti climatici, potrebbe essere necessario ricorrere all’irrigazione delle vigne, mentre fino a poco tempo fa “la viticoltura in regioni come il Veneto non era considerata una coltura irrigua”.
E in secondo luogo ci sarà da lavorare sulla biodiversità:
“È noto che un sistema più biodiverso è più resiliente. Noi veniamo da una fase di miglioramento genetico dal secondo dopoguerra in cui abbiamo semplificato la piattaforma varietale, spingendola verso risultati qualitativamente interessanti ma adeguati alle condizioni climatiche di 30-50 anni fa, non a quelle attuali. Dobbiamo cercare di tornare indietro il più rapidamente possibile e guardare a tipi, a biotipi, a varietà più tardive che negli anni ’50 e ’60 erano state scartate volontariamente”.
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