L’importanza del bestiame nelle tribù autoctone del Kenya
Scritto da
Gaia Dominici
Storyteller, vive nella savana in Kenya insieme a suo marito e a sua figlia raccontando la loro vita Maasai, portando il suo punto di vista su scelte di vita sostenibili
Ecco come il cambiamento climatico rischia di cancellare uno degli aspetti fondamentali di queste culture ancestrali
In Kenya coesistono più di quaranta tribù diverse e tra esse ne troviamo alcune che per fattori geografici (vivono solitamente in zone molto isolate e decentrate del paese) e per fattori culturali (vivono ancora seguendo pedissequamente le tradizioni antichissime della loro tribù) ancora oggi basano tutte le loro forze economiche sull’allevamento del bestiame. Non solamente i Maasai, popolo che conosco e con cui ho vissuto per gli ultimi nove anni della mia vita, ma anche Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Konso, Teso, Njemps. Tutte queste, e molte altre, piccole popolazioni (rispetto ad altre tribù rappresentano una minuscola percentuale della popolazione keniana) vivono solamente grazie alla pastorizia.
Di cosa parliamo?
Le tribù autoctone rischiano di scomparire
Che si tratti di mucche, capre, pecore o tutte tre le specie insieme, le tribù autoctone che vivono allevando questi animali nel rispetto delle loro culture centenarie, oggi rischiano di scomparire per sempre. Il deterioramento del nostro pianeta e il cambiamento climatico sempre più opprimente stanno riducendo le mandrie di questi popoli a poche decine di capi di bestiame per nucleo famigliare. Inoltre, quei pochi animali che riescono a sopravvivere alla fame e alle malattie mortali che una forte denutrizione causa, spesso rappresentano un ulteriore soggetto da supportare economicamente. Infatti, è sempre più inevitabile per chi alleva bestiame dover ricorrere all’acquisto di mangimi commerciali o laddove non fossero reperibili (come nella savana) all’acquisto di farina di mais o degli scarti raccolti nei campi coltivati. Sembrano, in apparenza, spese irrisorie, ma dobbiamo contestualizzarle in situazioni in cui le persone già vivono forti disagi economici e che per farvi fronte fanno affidamento proprio su quei capi di bestiame che gli sono rimasti. Troppo spesso le persone si ritrovano indebitate fino al collo per riuscire a comprare qualche chilo di farina di mais da dare alle proprie mucche sapendo che non basterà nemmeno fino alla settimana successiva.
La distanza geografica ed emotiva
Mi rendo conto che per chi vive e lavora o studia in luoghi che non sono la savana non è facile comprendere appieno le difficoltà tangibili e quotidiane che queste persone si trovano ad affrontare. Mi rendo anche conto che in luoghi dove il cambiamento climatico si percepisce in modo meno impattante, questo sembra persino scomparire: dai media, dalle conversazioni, dalla mente, dagli occhi… Insomma sembra quasi non esistere. Ma il problema è proprio lì! È proprio in quei media, in quelle conversazioni, in quelle menti e in quegli occhi in cui il deterioramento climatico non esiste o, se tutto va bene, non ha troppa importanza. Perché il dramma che sta vivendo qualcuno in un luogo geografico che non conosco e che non vivo sembra apparentemente non toccarmi e questa distanza, geografica ma anche e soprattutto emotiva, è ciò che forse più di tutto impedisce una reale presa di coscienza del problema.
Problema che, oltretutto, prima o poi colpirà tutti.
Mi manca il fiato
Non so per quanti anni ancora esisteranno la maggior parte delle tribù autoctone del Kenya: cinque? Cinquanta? Dieci? Non trovo risposte giuste ma il solo fatto di pormi questa domanda mi fa pensare. Mi fa spaventare. I popoli che abitano la savana non resisteranno ancora a lungo e non lo dico per tendenza personale alla negatività, lo dico perché l’ho visto, ne sono testimone. Il cambiamento climatico li ucciderà. Ne ucciderà usi e costumi, tradizioni e leggende. Ucciderà la loro cultura in maniera irreversibile e quando accadrà nessuno potrà riportarla indietro. Stiamo andando verso la cancellazione di interi popoli e della loro sacra identità. Mi sembra terribile e quando ci penso mi manca il fiato, eppure se mi guardo intorno a nessuno sembra interessante. Forse quando qualcuno si sentirà toccato pur non essendo di origine Maasai o Turkana o Njemps, sarà troppo tardi.
E questo intero, prezioso e antico mondo sarà sparito.