Rinnovabili, dalle “batterie ad acqua” una soluzione per l’accumulo

Scritto da Ettore Benigni
Giornalista

Una delle sfide della transizione energetica è quella di trovare tecnologie che consentano di sfruttare al meglio la produzione in eccesso del fotovoltaico e dell’eolico, come la centrale a pompaggio a Tâmega, in Portogallo

Tecnicamente si chiama “centrale di pompaggio”: è un sistema che consente di utilizzare l’energia prodotta in eccesso dagli impianti alimentati da energie rinnovabili, essenzialmente fotovoltaici ed eolici, per trasportare grandi quantità di acqua su un’altura. Una volta immagazzinata l’acqua sarà possibile produrre energia a costo zero facendola scorrere di nuovo verso valle, incanalandola nel percorso contrario, con la pompa che diventa una turbina. Si tratta di una tecnologia, quella delle cosiddette “batterie ad acqua”, che esiste ormai da circa un secolo: oggi è utilizzata soprattutto negli Stati Uniti ma sta iniziando a prendere piede anche in Europa come una soluzione possibile per la transizione energetica green.

Di cosa parliamo?

La centrale di Tâmega in Portogallo

L’esempio è quello della centrale Tâmega che è operativa nel Nord del Portogallo, che utilizza il dislivello di una montagna per 885 metri per pompare l’acqua in salita e generare energia nella sua discesa, per un percorso complessivo di 7 kilometri. La realizzazione del progetto è costata a Iberdrola 1,5 miliardi di euro.

La pompa/turbina di questo impianto, un cilindro da 230 tonnellate che gira a 600 giri al minuto, ha una capacità di 880 megawatt, per un totale di energia immagazzinata nel serbatoio superiore – nell’arco delle 24 ore – di 21 Gigawatt. Traducendo questi numeri in parole povere, si tratta di una quantità di energia sufficiente a caricare 400mila batterie di auto elettriche, o ad alimentare per un’intera giornata 2,4 milioni di case in Portogallo.

Le potenzialità del progetto

Applicata alla transizione verso le energie rinnovabili, la tecnologia delle centrali di pompaggio è promettente perché permette di sfruttare l’energia prodotta in eccesso dagli impianti rinnovabili, immagazzinandola di fatto sottoforma di acqua nei serbatoi posti in alto: proprio quell’acqua, infatti, facendo il percorso opposto e scendendo di nuovo verso valle, produrrà energia a costo zero, e potrà farlo in qualunque momento, anche nelle ore notturne, quando gli impianti fotovoltaici non possono produrre energia, o in assenza di vento, quando gli impianti eolici sono fermi.

Allo stesso modo, quando gli impianti di produzione di rinnovabili funzionano a pieno regime, la centrale a pompaggio può servire a utilizzare l’energia che non può essere autoconsumata direttamente dalla rete, e che rischierebbe di andare perduta in assenza di tecnologie di accumulo o di stoccaggio, a partire dalle batterie. La centrale a pompaggio può inoltre essere utilizzata per stabilizzare il mercato dell’energia, funzionando on demand quando sulla rete si verifica una richiesta maggiore di energia.

La necessità di stoccaggio

In una fase storica come quella attuale, in cui è in corso una transizione alle energie rinnovabili per abbattere le emissioni di CO2 in atmosfera causate dagli impianti che utilizzano i combustibili fossili, sviluppare tecnologie di stoccaggio sarà sempre più importante. Per fare un esempio, rimanendo in Portogallo, il Financial Times riporta che oggi il Paese può contare sul 61% dell’energia prodotta da energie rinnovabili, mentre programma di arrivare all’85% entro il 2030.

Rispetto alle batterie che sono oggi sul mercato, la tecnologia delle batterie ad acqua ha diversi vantaggi, a partire dal fatto che se una “batteria ad acqua” può produrre energia elettrica durante l’arco di un’intera giornata, per le batterie chimiche questo tempo si restringe al massimo a 4 ore. Se inoltre le batterie chimiche si prestano bene all’immagazzinamento dell’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici, perché possono inserirsi nella produzione sfruttando l’alternanza giorno-notte, molto più complicato è il loro utilizzo per gli impianti eolici, che non sono legati a questa variabile ma a una molto più casuale, quella della presenza del vento, e che producono una quantità di energia molto più grande.

Altri esempi nel mondo

Una delle più note centrali a pompaggio sul suolo europeo è quella di Cruachan di Drax, in Scozia, che risale agli anni ’60. In questo caso, però, la batteria ad acqua non serve a stoccare l’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici, ma per immagazzinare la produzione in eccesso della locale centrale nucleare. Altri esempi nel mondo sono soprattutto negli Stati Uniti: a oggi infatti l’idroelettrico di pompaggio rappresenta circa il 90% dell’accumulo di energia elettrica su scala globale, e la maggior parte di questi impianti si trova in Usa. A questa tecnologia si sta indirizzando anche l’Australia, dove l’ex primo ministro Turnbull ha dato il via a un progetto “Snowy 2.0”, che costerà alle casse dello stato 8 miliardi di dollari e che vedrà la luce nel 2028.

Le criticità

Il problema che frena la diffusione degli impianti di pompaggio è quello dei costi: se è veto infatti che un impianto in esercizio è di per sé redditizio e duraturo nel tempo, è anche vero che per progettarlo e metterlo in opera sono necessari investimenti miliardari che spesso preoccupano i player del settore. Lo stesso impianto di Tâmega, ad esempio, ha usufruito di un finanziamento da 650 milioni di euro della Banca Centrale Europea, che ha quindi coperto poco più di un terzo dei costi per la realizzazione della centrale.

Oltre ai costi proibitivi, la seconda criticità è – come accade spesso quando si parla di grandi opere – la complessità e la lunghezza degli iter autorizzativi, rispetto alla quale gli operatori del settore sono concordi nel chiedere una semplificazione e uno snellimento delle procedure, oltre che la stabilità del quadro normativo nel tempo.