Archeoplastica, i rifiuti restituiti dal mare per educare alla sostenibilità
Scritto da
Ettore Benigni
Giornalista
Un ragazzo di Ostuni, Enzo Suma, raccoglie e ricostruisce la storia dei rifiuti in plastica trovati in spiaggia: “Ci sono flaconi e giocattoli che risalgono fino a 70 anni fa. E metterli in mostra serve a sensibilizzare adulti e bambini sull’inquinamento”
“L’obiettivo che voglio raggiungere è sensibilizzare un grande numero di persone, e soprattutto i più piccoli, sul problema dell’inquinamento del mare causato dalla plastica. Il messaggio è che la plastica non si degrada praticamente mai, ha tempi lunghissimi, secoli, in certi casi millenni. Trovo assurdo che utilizziamo un materiale di questo genere per prodotti usa e getta che hanno durata di pochi giorni o addirittura di pochi minuti”.
A parlare è Enzo Suma, di Ostuni, in Puglia, che dopo la laurea in Scienze Ambientali a Venezia è tornato a casa per trovare la sua strada professionale nelle escursioni naturalistiche e nell’educazione ambientale rivolta alle scuole, con il filo conduttore dell’amore per il mare e con una serie di progetti legati anche al ciclo dei rifiuti e della plastica. Ha iniziato da “Millenari di puglia”, con un’attività di escursioni e tutela della fauna selvatica, e da quattro anni è impegnato anche in Archeoplastica, un progetto in forte crescita che si sta sviluppando tanto sui social quanto con vere e proprie mostre, sia nelle scuole che in vari luoghi pubblici. In quest’intervista Enzo spiega come è nata e come sta crescendo la sua idea.
Di cosa parliamo?
Enzo, ci racconti come è nata Archeoplastica?
Da tanto tempo mi occupo della raccolta delle plastiche, ma soltanto negli ultimi anni ho iniziato a farlo in modo più consapevole. È bastato fare più attenzione a quello che raccoglievo perché nascesse l’idea di realizzare un progetto nuovo. Mi capitava spesso di imbattermi in flaconi che arrivavano dall’altra parte dell’Adriatico, ma tutto è partito da una crema solare che aveva ancora impresso il prezzo in lire, e che risaliva alla fine degli anni Sessanta. Ho pubblicato la foto sui social, ed è stato estremamente interessante leggere i commenti: tutti erano legati al tema dell’inquinamento da plastica. In seguito, mi è capitato di raccogliere altri reperti interessanti, e ho postato anche quelli, notando che quelle fotografie suscitavano interesse e riflessioni. Così è nata l’idea di utilizzare la storia di questi oggetti per aprire un dibattito e sensibilizzare le persone.
Quando hai iniziato a lavorare seriamente su questo progetto?
Quattro anni fa ho iniziato a mettere da parte quello che raccoglievo, ricostruendo la storia dei rifiuti “più interessanti”, quasi un lavoro da archeologo. All’inizio è stato difficile, mi è capitato di perdere molto tempo su oggetti che poi non erano così significativi o interessanti come mi era sembrato in un primo momento. Ma poi, con l’esperienza, ho iniziato a sviluppare un occhio critico che mi ha consentito di andare avanti più speditamente. Oggi sappiamo che ci sono diversi elementi che ci aiutano a stabilire al periodo in cui un flacone era in commercio, la grafica, la presenza di caratteri in sovraimpressione, lo studio dei loghi, o altri dettagli come i codici a barre. Poi l’anno scorso ho lanciato una raccolta di fondi via crowdfunding su Produzioni dal basso, e questo mi ha consentito di raccogliere il necessario per realizzare il sito di Archeoplastica, il Museo virtuale e mi ha permesso di allestire le prime mostre gratuite. Grazie al profilo Instagram, oggi posso raggiungere molte persone in tutta Italia, e la comunicazione sta arrivando a persone nuove e di una fascia di età più bassa. Dopo le ultime due mostre a Bari, che hanno suscitato la curiosità di National Geographic, è iniziata una fase più matura del progetto, con collaborazioni che mi consentiranno di curare meglio il progetto portandolo fuori dai confini della Puglia, allestendo più esposizioni contemporaneamente e coinvolgendo al meglio le scuole primarie
Di che tipo di oggetti parliamo, e a quando risalgono?
Quelli che sto raccogliendo sono oggetti che sono arrivati dal mare e che possono essere databili dall’inizio dell’era della plastica, quando questo materiale è entrato a far parte del consumo di massa, quindi dalla fine degli anni Cinquanta fino a tutti gli anni Ottanta. Si tratta potenzialmente, quindi, di milioni di tonnellate di oggetti, tra flaconi e giocattoli: ancora oggi ogni tanto le mareggiate rimettono in circolazione oggetti che “dormivano” incastrati da qualche parte o sepolti dalla sabbia o nel fondale. Quello che trovo affascinante è che tutti ormai sappiamo che la plastica dura secoli, ma il poter vedere un oggetto che risale a 70 anni fa e che è stato restituito oggi da una mareggiata ha il potere di suggestionare le persone più di un trattato scientifico o di un documentario, perché le mette di fronte non a una eventualità teorica, ma a un fatto che si può toccare con mano. Il potere di questo progetto è di mettere insieme oggetti che hanno 60 o 70 anni di vita e che ancora circolano liberamente nelle acque dei nostri mari.
Quali sono gli oggetti che hanno suscitato più curiosità tra quelli che hai trovato finora?
In realtà ormai ce ne sono tanti, e ognuno ha un suo “pubblico”; non ce n’è uno che attiri allo stesso modo tutti. Alcuni sono dei giocattoli: è il caso di un Barbapapà che risale alla fine degli anni Settanta, un personaggio però che anche i bambini di oggi sono in grado di riconoscere. I piccoli che lo vedono ne rimangono colpiti, perché è ben riconoscibile ma porta su di sé anche i segni del tempo trascorso in acqua. Poi ci sono i vecchi flaconi di detersivo o i prodotti per l’igiene personale: quelli che hanno ben in evidenza il prezzo, soprattutto quando è in lire, fanno riflettere e hanno un appeal maggiore, perché veicolano meglio il messaggio dell’inquinamento. Sento le persone chiedersi “ma da quanto sta in acqua questo flacone di detersivo se quando è stato prodotto costava 100 lire?”. E poi ci sono gli oggetti che sono in grado di raccontare una storia. È il caso di un personaggio trovato in spiaggia, un “gobbo” vestito in frac, in plastica, dei primi anni Sessanta che è arrivato a essere citato dal Tg1. Dopo la messa in onda di quel servizio mi contattò una ragazza del Piemonte e mi disse che aveva riconosciuto il flacone: l’aveva conservato perché la madre l’aveva vinto in una festa di Paese degli anni Sessanta. Nonostante questo non riusciamo a capire con certezza se si trattasse di un contenitore di bagnoschiuma o solo di un giocattolo.