Progetto Quid, la moda che nasce dalla sostenibilità sociale e ambientale
Scritto da
Ettore Benigni
Giornalista
Valeria Valotto, responsabile dell’area istituzionale e vice-presidente dell’impresa sociale che celebra i propri primi dieci anni di vita: “Le nostre collezioni nascono dal recupero di eccedenze tessili e dall’impegno di includere le donne nel mercato del lavoro”
“Dove finisce la filiera della moda, lì iniziano le nostre collezioni: dal recupero di eccedenze tessili e dall’impegno a includere le donne nel mercato del lavoro, per contribuire a colmare un gap che è ancora molto accentuato”. Valeria Valotto, responsabile dell’area istituzionale e vicepresidente di Quid, spiega così il progetto nato a Verona dall’idea e dall’impegno della founder Anna Fiscale, che proprio in questi giorni festeggia il decennale dalla fondazione.
Di cosa parliamo?
- Come nasce il progetto Quid?
- Qual è stato il primo obiettivo attorno a cui è nato il progetto?
- Come si è sviluppato il progetto fino a oggi?
- Quali sono state le tappe principali del percorso di Quid?
- Cosa vi caratterizza nell’ambito della sostenibilità sociale e ambientale?
- E dal punto di vista della sostenibilità sociale?
- Guardiamo al futuro: come pensate di sviluppare il vostro progetto?
- Che feedback state ricevendo dai vostri clienti?
Come nasce il progetto Quid?
Dopo un paio di anni in cui la dimensione era stata essenzialmente quella del volontariato, Quid nasce ufficialmente nell’aprile 2014, con l’obiettivo di fare qualcosa per l’impiego femminile attraverso la bellezza nel suo senso alto, con l’armonia rispetto alle risorse umane e materiali. Parliamo di un periodo in cui il mercato del lavoro era diverso da oggi, con due crisi ravvicinate, nel 2008 e nel 2013, che avevano creato grandi problemi soprattutto per l’impiego femminile, e a cui abbiamo voluto dare una risposta creando un luogo di lavoro sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale.
Qual è stato il primo obiettivo attorno a cui è nato il progetto?
Creare imprenditoria sociale che puntasse a trasformare i limiti in punti di partenza. Uno di questi limiti è di natura ambientale: il fatto cioè che in Italia, riferimento di eccellenza per il mondo della moda, si vadano a convogliare grandi quantità di tessuti, anche pregiati, che spesso non vengono utilizzate o vanno distrutte. L’altro limite riguarda il mercato del lavoro: quello italiano nel 2013 era stato definito come uno dei meno inclusivi in Europa, una situazione peggiore di quella che si vive oggi. Per questo ci siamo dati l’obiettivo di dare lavoro per l’80% a donne, con particolare attenzione a quelle che avevano trascorsi di fragilità. È nata così un’impresa sociale che attraverso la moda ha voluto contribuire a creare un mercato del lavoro più inclusivo, dando nuova vita a persone e tessuti, mantenendo sempre dinamiche di lavoro genuine, che non prevedessero semplicemente un impiego, ma anche la possibilità di fare carriera e seguire percorsi di crescita.
Come si è sviluppato il progetto fino a oggi?
I cardini sono ancora gli stessi, ma abbiamo vissuto un importante percorso di crescita. Oggi distribuiamo accessori e capi su canali B2B e B2C. Ci rivolgiamo ai clienti finali attraverso la nostra rete di negozi, sia outlet che store, che sono otto distribuiti tra i due punti vendita di Verona, quelli di Bassano del Grappa, Venezia, Mestre, Milano e Bologna. Gli outlet ci servono per valorizzare eccedenze e seconde scelte, mentre attraverso i negozi lanciamo le nuove collezioni. Quanto alle collaborazioni B2B, che oggi sono circa 60 per un fatturato di quattro milioni di euro, lavoriamo insieme ad altre aziende che abbracciano la sostenibilità a 360 grandi, siamo i loro partner e fornitori sostenibili, e insieme sviluppiamo i concept. Oggi siamo una squadra di 145 persone di 21 nazionalità, per l’82% donne, che nel 60% dei casi hanno alle spalle un percorso di fragilità lavorativa o di disabilità.
Cosa distingue il vostro approccio nel B2C e nel B2B?
Direi che lato B2C tutte le nostre collezioni nascono con concetto di circolarità sfidante per chi lavora nella moda. Fino a qualche anno fa nel fashion chi faceva design era completamente all’oscuro dei principi di circolarità che potevano essere applicati al settore. Nel nostro caso, invece, è fin dall’inizio il magazzino che detta legge per limitare gli sprechi e ottimizzare l’utilizzo delle risorse: in questo modo viene capovolto il concetto tradizionale di design. Quanto al B2B, direi che l’aspetto interessante sono le partnership per le quali possiamo rappresentare alleati importanti per il collocamento mirato, portando la nostra sensibilità all’interno del mondo for profit, dialogando con un ecosistema rispetto al quale il no–profit ha storicamente avuto resistenze, e contribuendo a creare ecosistemi più virtuosi e sostenibili.
Quali sono state le tappe principali del percorso di Quid?
Nel tempo abbiamo aperto un nostro laboratorio e nel carcere di Verona con l’esperienza che può proseguire anche dopo aver scontato la pena, grazie al fatto proponiamo progetti di transizione che accompagnano le persone anche dopo l’uscita dal carcere. Quanto ai primi punti vendita, abbiamo avuto l’opportunità di aprire alcuni temporary store all’interno di spazi retail temporaneamente vacanti messi a disposizione da un nostro partner. Oggi contiamo su una serie di partnership e di mentoring con realtà for profit che ci sostengono. In dieci anni abbiamo investito complessivamente in formazione quasi un milione e mezzo di euro, con un centinaio di persone che sono passate dai nostri laboratori, di cui quasi il 90% è rimasto con noi nel tempo.
Cosa vi caratterizza nell’ambito della sostenibilità sociale e ambientale?
Dal nostro punto di vista il cuore della circolarità è nell’imprenditoria sociale. Ci prefiggiamo di raggiungere l’inclusione sociale attraverso la sostenibilità ambientale, utilizzando un approccio integrato. Nello specifico della sostenibilità ambientale riusciamo a recuperare tessuti di eccedenza che ci vengono donati o venduti a prezzi simbolici da 50 aziende su tutto il territorio nazionale, dai brand alle maison fino a tessutai o stampatori che hanno alle spalle una tradizione secolare. Così in dieci anni abbiamo recuperato mille km e mezzo di tessuto. Oggi arriviamo a recuperare anche la pelle e siamo impegnati in progetti di design circolare, riutilizzando e dando nuova vita a capi o accessori che possiamo ridisegnare per dare loro un’ulteriore vita sul mercato, come sta succedendo nella partnership in corso con Ikea sui tessuti copridivano.
E dal punto di vista della sostenibilità sociale?
In questo caso abbiamo due focus principali. Intanto quello di trasformare i limiti del mercato del lavoro in punti di partenza per dare vita a luoghi di crescita e di sviluppo dei talenti. Il secondo focus, che accennavamo prima, è di dare vita a collaborazioni extrasettoriali con il mondo for profit, a livello commerciale e di condivisione dei know-how con professioniste e professionisti che ci affiancano e ci consigliano sulla base della loro esperienza.
Guardiamo al futuro: come pensate di sviluppare il vostro progetto?
Immaginiamo essenzialmente due traiettorie. La prima, come accennavo, è quella di proseguire nella direzione di rafforzare un distretto del Made in Italy sostenibile, che abbiamo chiamato Innesti. Vorremmo che il modus operandi che abbiamo sperimentato durante la pandemia possa trovare ulteriori applicazioni. Pilotato in maniera strutturata nel 2022, oggi il progetto coinvolge quattro laboratori in maniera stabile e altri in maniera più occasionale, per un totale di quasi 200 lavoratori e lavoratrici. Quanto poi al versante della moda per noi è molto interessante continuare a sperimentare design circolare, reperendo eccedenze e stock che possono essere ridisegnati e portati sul mercato e ai clienti in forma nuova. Siamo al lavoro per dare vita a nuove collaborazioni in altre carceri, e per lavorare in maniera più sistematica sulla pelle. Abbiamo inoltre lanciato per il nostro decimo anniversario una raccolta fondi straordinaria per 100mila euro, ai quali ne affiancheremo altrettanti di risorse nostre, puntando a realizzare programmi di formazione, e mi fa piacere dire che siamo già all’80% dell’obiettivo.
Che feedback state ricevendo dai vostri clienti?
Il segnale che riceviamo è che il binomio sostenibilità sociale e ambientale è tenuto in grande considerazione: senza di quello stile e qualità non sarebbero sufficienti. Nel B2C la risposta è molto positiva nella fascia 35-65. La sfida è di riuscire a garantire coerenza alle collezioni mantenendo l’obiettivo di recuperare tessuto di eccedenza e realizzando capi sufficientemente semplici da poter essere lavorati nei nostri laboratori, che siano appealing e allineati rispetto al trend del momento. La nuova collezione, ad esempio, è realizzata per il 97% con tessuti di eccedenza. Oltre a questo, è estremamente attrattivo per i clienti anche l’impatto sociale della nostra produzione. Quando al B2B, c’è un’ottima risposta del lusso rispetto a quantitativi ancora piccoli, mentre le grandi distribuzioni e i grandi brand si caratterizzano per la richiesta di piccoli accessori ma in grandi quantità. In questo caso abbiamo un feedback positivo sulla qualità, su standard che spesso cono particolarmente complessi da raggiungere.