Ancora una volta si sono spenti i riflettori sul 25 novembre, sui dolori della cronaca, sui clamori delle manifestazioni “divisive”, sull’inondazione di contenuti, dati, consigli che ne accompagnano l’avvento.
Parlarne dopo è sempre più difficile, mantenere alta non tanto l’attenzione, essendo ormai diventato un tema mainstream, quanto la qualità dei contenuti e l’appropriatezza delle ricadute culturali e simboliche, è la vera sfida.
Tirando le somme a freddo, possiamo dire che non siamo ancora lontani nell’immaginario collettivo, dal paradigma della vittima, dalla questione di pubblica sicurezza. L’universo simbolico legato ai reati collegati al fenomeno e gli aspetti di antagonismo sociale, sono quelli che più emergono nel discorso pubblico, perché parlano direttamente alla nostra pancia. Paura che parla alla paura. Violenza che parla alla violenza. Desiderio di potere che parla al desiderio di potere.
A noi però, con le luci di Natale che brillano nelle strade e l’immancabile richiamo alla dimensione familiare e domestica, preme ricordare che la violenza di genere non scompare l’8 dicembre quando addobbiamo l’albero, che è e resta, prima di ogni altra cosa, una questione culturale, figlia delle diseguaglianze di genere che permeano ancora molti aspetti della nostra vita quotidiana e della nostra organizzazione sociale, economica, familiare, del nostro sistema educativo e sanitario.
Del nostro sistema patriarcale. Parola ancora oscura, temuta, snobbata, in un rimosso collettivo con poche tollerate eccezioni. Spesso edulcorate, come nel clamoroso caso del film campione di incassi. Parlarne per avere la percezione che qualcosa sta cambiando, coprire con un po’ di glitter la resistenza del sistema a mutare.
Non basta usare la parola vagina con disinvoltura, non serve a niente usare la schwa e certificare la parità di genere, se il cambiamento della forma si trasforma in arido adempimento tecnico-burocratico e non aggredisce la sostanza dei processi culturali che la generano. In questo caso stiamo solo imbiancando il sepolcro.
Ad esempio siamo abituate e abituati a sentir raccontare storie di vite che finiscono con la violenza, ma raramente di quelle che continuano. Come se non potesse esserci un poi, come se non potesse esserci un’altra vita dopo, migliore. Una vita libera, che nasce sotto la buona stella di un faticoso atto di coraggio, che resta nella penombra di scelte individuali di donne il cui coraggio non sembra degno di essere raccontato. Una coerenza sottile ma efficace con il paradigma della subalternità.
A noi piace invece l’idea di poter ribaltare l’ennesimo pericoloso stereotipo di pecore tra i lupi, che ci vediamo cucire addosso ogni 25 novembre, per raccontare queste storie diverse che ancora i media non amano raccontare. Le storie del dopo, di quelle 56.000 donne che nel 2022 si sono rivolte ad un centro antiviolenza. Dove sono? Com’è cambiata la loro vita?
È probabile che molte di loro si apprestino a passare un Natale lontano da casa, casa che però, in questi anni di #sempre25novembre abbiamo imparato a comprendere, si tramuta spesso in una prigione.
Posso raccontarvi quello che so di alcune di loro.
Per chi è stata accolta in un Casa Rifugio, sarà un Natale sicuramente diverso, condiviso con altre donne sconosciute, appena incontrate o già diventate care, donne che hanno in comune una storia simile e donne che le hanno accolte. Ma sarà un Natale in cui non mancheranno l’albero e le luci, i doni, il panettone, le risate. E in cui non mancheranno i progetti per il futuro. Un futuro in cui saranno più libere di scegliere per sé e per i propri figli, di creare, ricucire, alimentare nuovi legami di amicizia, di vicinanza.
La storia che vi vogliamo raccontare è proprio la storia della nascita di legami forti e duraturi, del bello e degli incontri che in quel dopo ripagano, anche solo in parte, il dolore e la paura, ma anche il coraggio di esserci arrivate. Perché di violenza si muore, purtroppo talvolta è vero, nel 2023 lo è stato per 109 donne, fino ad oggi. Ma nel ricordare questo è doveroso ricordare anche che non è un destino, una predestinazione sociale, dalla violenza si può uscire. La violenza si può eliminare.
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