Pietrosanti: “I miei codici per ‘l’altra metà’ della pittura”

Scritto da Antonello Salerno
Giornalista

Lo scultore inaugura oggi la sua mostra alla Ticinese Art Gallery di Milano: “Ci sono centinaia di pittrici, protagoniste del loro tempo, cancellate dalla storia dell’arte. ‘Giuditta e Oloferne’ di Artemisia Gentileschi è un simbolo di questa discriminazione e della questione di genere”

Le pittrici sono scomparse dalla storia dell’arte. Di loro, a partire dal 1600, si trovano tracce piccole e sporadiche nei testi e nelle enciclopedie, nonostante abbiano svolto ruoli di primo piano nella loro epoca. Rintracciare la loro presenza è un’operazione difficile, perché non potevano firmare contratti, ricevere commissioni ed essere intestatarie dei pagamenti, e spesso erano costrette a firmare con pseudonimi maschili, i con i nomi dei propri padri o mariti. Ma lavoravano normalmente nelle botteghe – anche in quelle dei grandi maestri – ed erano apprezzate per il loro operato. Soltanto dopo gli anni Settanta del 900, grazie all’opera di alcune storiche dell’arte con l’emergere del femminismo, si è iniziato a squarciare il velo sulla loro presenza e sulla loro attività, e ancora molto rimane da fare. Una delle icone più rappresentative in questo campo è quella di Artemisia Gentileschi, artista romana del 1600, figlia di Orazio Gentileschi e contemporanea di Caravaggio, che viene convenzionalmente inserita tra gli esponenti della scuola caravaggesca. Proprio Artemisia e la sua opera Giuditta e Oloferne sono al centro della mostra di Roberto Pietrosanti che si inaugura oggi alla Ticinese Art Gallery di Milano: “Codici Pietrosanti, l’altra metà della pittura”. Dodici opere dedicate ai lavori di altrettante artiste dal Rinascimento alle avanguardie del 900, che sono servite da punto di partenza all’artista romano per creare i propri lavori basati sullo studio e sull’elaborazione del colore. In quest’intervista Pietrosanti ci racconta da dove nasce l’ispirazione per questa mostra e quali sono i messaggi che la caratterizzano.

Di cosa parliamo?

Quale percorso ha seguito per arrivare a questa mostra?

Si tratta della mia terza mostra personale dedicata a una tipologia di lavoro che per sintesi ho intitolato Codici. Io sono scultore, ma ho una vera passione per la pittura, arte che va quasi in contrasto con la mia predisposizione naturale che è di gestione della materia. Non potendo gestire il colore da pittore, sono andato ad analizzare alcuni artisti storici – dal rinascimento al moderno contemporaneo – selezionando le opere che fanno parte del mio patrimonio culturale, e le ho codificate, estraendo il colore. Il risultato è paragonabile a una scia di memoria, o ciò che resta della pittura, ciò che rimane impresso nella mente del colore. La prima mostra che ho realizzato riuniva 50 codici che si ispiravano ai giganti della pittura, dal Beato Angelico a De Chirico, da Bacon a Velasquez. La seconda ruotava attorno alla cupola di San Antonio de la Florida di Goya, e al centro di questa terza c’è Artemisia Gentileschi.

Come è nata l’idea dell’ “altra metà della pittura”?

Il tema della pittura al femminile è molto complesso nell’arte. Purtroppo, la nostra radice culturale pone il lavoro delle donne in serie B, è come se la storia avesse cancellato la loro presenza. Non entro nel merito della sfera sociologica o politica, ma si tratta di una questione molto radicata nella nostra cultura, che genera una visione storica – e non soltanto nell’arte – abbastanza inquietante. I testi storici non ci hanno quasi tramandato traccia delle artiste del passato. Dal momento che al lavoro di codifica associo sempre lo studio delle opere e delle biografie degli artisti, quando mi sono occupato di Artemisia è come se si fosse aperto un vaso di Pandora. Ho iniziato a scandagliare nel suo passato e a chiedermi come fosse possibile che a resistere al tempo, nei testi, ci fosse soltanto lei, che è stata una sorta di eroina della storia dell’arte, oltre a pochi sporadici accenni ad altre sue contemporanee, nonostante dall’antica Grecia in poi le donne siano sempre state presenti nelle botteghe d’arte. E così ho scoperto tante figure interessanti cadute nel dimenticatoio, potremmo arrivare a citarne centinaia, come Rosalba Carriera, che nel 700 è stata presente in tutte le corti, ma di cui si è pressoché cancellato il ricordo. Circostanza a cui ha contribuito anche la sua famiglia, dal momento che il fatto che una donna praticasse l’arte era vissuto a quei tempi come un disonore. Quanto poi al titolo, “L’altra metà della pittura”, è mutuato da una grande mostra realizzata dalla curatrice e critica d’arte Lea Vergine negli anni Ottanta a Milano, che è rimasta come una pietra miliare in questo campo. In un momento storico effervescente Lea Vergine ha avuto il merito di tirare fuori le grandi artiste contemporanee per un grande evento a Palazzo Reale.

Quando si è iniziato a indagare sulla presenza delle pittrici nella storia dell’arte?

Il punto di svolta c’è stato nei primi anni Settanta del 900, con la comparsa del femminismo e con il lavoro della critica statunitense Linda Nochlind, con una serie di studiose che ne hanno seguito la scia negli anni successivi. I suoi studi hanno reso possibile ricostruire il ruolo centrale che le donne hanno avuto nella storia della pittura, fino ad arrivare alla sostanziale parità con gli uomini che possiamo registrare nella scena contemporanea. Proprio sul lavoro delle artiste, soltanto per fare un esempio di questa dinamica, era dedicata quest’anno la biennale di Venezia. Più in generale oggi c’è un’attenzione vera, autentica: le artiste contemporanee sono presenti nei musei e nelle grandi mostre internazionali. Passando in rassegna i diversi periodi storici, infine, è importante inquadrare il fenomeno della presenza delle donne nel mondo dell’arte dalla visuale corretta, tenendo in considerazione il fatto che spesso le donne non hanno avuto lo stesso accesso e le stesse opportunità di formazione degli uomini.

Quali sono gli elementi che caratterizzano i suoi nuovi codici?

Al centro della mostra c’è l’opera Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi, ma in tutto presento 12 codici ispirati alle opere di altrettante artiste che vanno dal Rinascimento fino all’avanguardia storica: Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Fede Galizia, Elisabetta Sirani, Rosalba Carriera, Berthe Morisot, Mary Cassatt, Natal’ja Gončarova, Tamara de Lempicka, Frida Kahlo, Georgia O’Keeffe, Charlotte Salomon. Tutte donne accomunate dall’aver vissuto la propria vita sul filo del rasoio, spesso con comun denominatore di essere molto impegnate dal punto di vista sociale e politico, e il merito di aver dato un input straordinario alle questioni di genere, anticipando molti dei temi che sono oggi nelle agende politiche e delle istituzioni.
Tornando ad Artemisia, al centro della mostra c’è la sua seconda versione di Giuditta e Oloferne, oggi conservata agli Uffizi di Firenze: una tela di un metro e novanta per un metro e settanta, a cui ho dedicato un codice in scala 1:1, composto da 72 tasselli nel loro formato standard 24×18. È la prima volta che mi misuro con un lavoro di queste dimensioni, che consente di andare più in profondità nel contatto e nella conoscenza dell’opera e dei suoi colori. L’ho chiamata Le 72 giornate di Artemisia, facendo riferimento al numero dei tasselli e presumibilmente al tempo impiegato dall’artista a realizzare l’opera. Questa vicinanza con il tempo di realizzazione non è soltanto un elemento tecnico, ma anche di comprensione e di maturazione del linguaggio. Lavorare a quest’opera mi ha consentito di entrare in una dimensione sorprendente, in cui sono arrivato ad analizzare fino ai dettagli infinitesimali l’opera.

Perché ha scelto proprio Giuditta e Oloferne?

Quella dipinta da Artemisia è una scena cruenta, che rappresenta il cambiamento portato nel mondo della pittura da Caravaggio. Fino al 1600 le immagini di questa scena erano statiche, e si limitavano a ritrarre Giuditta che tiene su un vassoio la testa di Oloferne. Con Caravaggio tutto si ribalta, e cambia il linguaggio dell’arte: l’artista mette in scena l’azione, la donna nell’atto di tagliare la testa al generale. Alcune fonti riportano che Caravaggio, amico di Orazio Gentileschi, abbia tenuto in braccio sua figlia Artemisia da bambina. Quando Caravaggio realizzò la sua Giuditta e Oloferne Artemisia aveva tra i 10 e i 15 anni, ed era già un’artista che lavorava a bottega dal padre. Proprio all’opera di Caravaggio si sarebbe ispirata per il proprio quadro, inizialmente nella prima versione più piccola – che modificò più volte – oggi conservata al museo di Capodimonte a Napoli, e poi per quella che le fu commissionata da un cardinale romano, a cui mi sono ispirato per i miei codici, che fu eseguita a Roma nel 1620. A questo proposito è suggestivo pensare che io ho iniziato a lavorare ai codici su quest’opera nel 2020, esattamente 400 anni dopo la sua realizzazione, in uno studio che si trova soltanto a poche centinaia di metri di distanza dalla bottega in cui realizzato il quadro, nell’area di via del Corso, che nel 1600 era il quartier generale degli astisti a Roma, il centro del mondo dell’arte a quei tempi. Infine, quella di Giuditta e Oloferne è una scena che può essere tranquillamente considerata come un’icona delle questioni di genere contemporanee, dal momento che ritrae una donna che mette la sua intelligenza al servizio della società, uccidendo un generale “cattivo” che vuole opprimere la popolazione.

E infine non è casuale la scelta del 25 novembre per l’inaugurazione…

Infatti, è una scelta voluta. Perché anche attraverso l’arte si può entrare nel merito delle questioni di genere, facendo educazione. Io ho voluto farlo utilizzando esclusivamente il linguaggio dell’arte, che è quello che mi appartiene. E in questo ho trovato piena sintonia e appoggio in Sorgenia, che ha condiviso l’idea di utilizzare l’arte come spunto per fare sensibilizzazione.