Pallet Cafe, l’unico locale a Nairobi che offre lavoro a persone con disabilità

Scritto da Gaia Dominici
Storyteller, vive nella savana in Kenya insieme a suo marito e a sua figlia raccontando la loro vita Maasai, portando il suo punto di vista su scelte di vita sostenibili

Mi sono ammalata all’età di diciotto anni. A venti sono stata dichiarata parzialmente disabile. Mi sono iscritta, per un breve periodo, alle liste di collocamento protette. Nulla serviva però a risollevare quella orrenda sensazione di limitatezza che dal mio corpo si estendeva fino alla mia mente. La disabilità del corpo non limita solo i nostri movimenti, ma diventa una vera e propria barriera tra di noi e il mondo esterno. Un corpo che non funziona è considerato un accessorio inutile, vuoto, privo di qualsiasi volontà.

Sei disabile, sei malato e lo spazio che hai diritto di occupare non deve disturbare quello di chi invece, al contrario tuo, possiede un corpo performante, giovane, attivo. Sognavo di diventare reporter in zone di guerra e quando la mia malattia mi ha costretto al primo intervento chirurgico importante, il mio mondo… È crollato. 

Il mio corpo per quanto giovane e atletico non funzionava più. Non funzionava più nemmeno per le piccole cose quotidiane come mangiare, lavarsi, fare la spesa e, ultimo ma non meno importante, lavorare.

Le persone con disabilità, che sia una disabilità presente dalla nascita o acquisita nel tempo, tendono a vivere ai margini della società perché la società – da sempre – non ammette mal funzionamenti. Benché non lo abbia chiesto tu, di nascere disabile, ti si appiccica addosso un tanto strano quanto paradossalmente normale senso di colpa: il mio corpo, io, non funziono come dovrei ed è quindi giusto che mi ritiri ai confini di un mondo dove chi funziona va avanti.

È giusto così, ti ripeti. Ti convinci. Non è il mondo a doversi adattare a te ma sei tu che ti dovresti poter adattare al mondo e se non puoi… Beh… se non puoi, allora il minimo che puoi fare è non causare alcun disturbo. La disabilità mette ancora cosi tanto in imbarazzo perché per troppo tempo la si è vissuta in segreto, nella vergogna, nell’oscurità, nella solitudine.

Nonostante oggi non sia più così (anche se di lavoro ce ne è ancora molto da fare, sia in Italia che nel mondo), le cose soprattutto nel mondo del lavoro, faticano ancora a cambiare. Lavora chi è performante. Spesso più a livello fisico, che a livello mentale. Così in Italia, cosi in Kenya. Paese in cui vivo da moltissimi anni con una disabilità ma anche con l’enorme fortuna di essermi creata un lavoro indipendente che si rifà solo alle mie reali capacità che – sorrido nel scriverlo – sono ancora tante, nonostante tutto.

Qui, in Kenya, secondo gli ultimi dati raccolti (2019) le persone con disabilità costituiscono circa il 2.2% della popolazione del paese e le donne costituiscono il 57% di essa.

Dati importanti se consideriamo il tasso di povertà elevatissimo che imperversa sul paese, la pressoché impossibile accessibilità alla sanità privata, le condizioni delle scuole e delle università pubbliche, l’isolamento di alcune zone del paese e la mancanza di beni come acqua, cibo, alloggi. Essere una persona disabile in Kenya è più difficile che esserlo in altri paesi del mondo. Lo stigma sociale è ancora molto presente e i bambini nati con malformazioni e disabilità spesso vengono rifiutati o, alla meno peggio, segregati in casa e abbandonati a loro stessi.

Per questo quando sentii parlare della storia che si srotola dietro al progetto del caffè-ristorante Pallet Cafe, ne sono rimasta subito incuriosita.

Pallet Cafe si trova nel cuore di uno dei quartieri residenziali più belli di Nairobi, è circondato da un bellissimo giardino e si possono mangiare piatti ottimi di una cucina che definirei internazionale. Ma non è questo ad aver attirato la mia attenzione. Questo è un di più che avvalora solamente la mia tesi (ma aspettate che ve la spieghi meglio tra un attimo).

Ciò che ha attirato la mia attenzione quando mi ci sono recata per un brunch della domenica è stata l’accoglienza silenziosa della cameriera. Mi ha sorriso, si è avvicinata e senza dire una parola mi ha indicato la strada verso i tavoli esterni. È stato solamente girandosi che ho visto il retro della sua maglietta. Una maglietta nera con una scritta bianca: #I’am Deaf. Sono sorda. 

Quella cameriera non era l’unica persona sorda del locale, infatti al Pallet Cafe tutto lo staff, dai camerieri ai cuochi, è composto da persone sorde. La prima cosa che ti viene portata è il menù sul quale, nella primissima pagina, si trovano alcune indicazioni nella lingua dei segni per poter effettuare il proprio ordine al cameriere o cameriera. 

“Ciao”, “per favore”, “grazie”, “latte”, “caffe”, “da bere”. Nel menù si trova un vero e proprio piccolo dizionario del linguaggio dei segni da poter utilizzare per comunicare intorno a sé. 

Ho notato, persino su me stessa, una iniziale nota di imbarazzo nel non riuscire a non emettere suoni quando parlavo con la cameriera e un lieve imbarazzo nel comunicare in una lingua a me sconosciuta ma questa, ho capito dopo, è stata la riprova che spesso l’imbarazzo è nostro, nei confronti di una disabilità, e quasi mai il contrario. E non perché siamo davanti ad una persona con delle limitazioni, ma perché in realtà la sua mancanza di limitazioni mette in luce le nostre: lei era perfettamente a suo agio a parlare con me nel linguaggio dei segni, io no. Perché è una lingua che non conosco e che non ho mai avuto occasione di imparare. Il limite, tra quelle due persone, era solo mio.

La disabilità non limita la propria capacità di eccellere e di fare un ottimo lavoro nel proprio campo. Spesso è il mondo, la società, a non voler dare spazio a corpi non conformi e non performanti secondo canoni irrealistici.

A chiunque stia leggendo questo articolo e mai capiterà a Nairobi consiglio una visita a questo locale perché, come detto prima, non è soltanto un grande esempio di inclusione ma offre un servizio e una cucina eccellenti (tra i migliori a Nairobi!) e questa, perdonate la ripetizione, è la riprova del fatto che la disabilità non limita la propria capacità di eccellere e di fare un ottimo lavoro nel proprio campo e che spesso è il mondo, la società, a non voler dare spazio a corpi non conformi e non performanti secondo canoni irrealistici.

Il mio augurio è di poter vedere altre realtà come quella del Pallet Cafe. Non solo in Kenya, ma chissà magari anche in Italia, un giorno.