Lo stupro in Italia: come sono cambiate le leggi in un secolo
Scritto da
Ettore Benigni
Giornalista
L’avvocato Micol Missana: “Si è passati dal considerare la violenza sessuale contro le donne da delitto contro la moralità pubblica e il buon costume a delitto contro la persona. Ma ancora molto rimane da fare, soprattutto per la tutela della libertà della donna”
“Il percorso di codifica dello stupro nella accezione odierna è stato lungo, tortuoso e per nulla scontato, frutto di un cambiamento culturale durato oltre un secolo”. A parlare è l’avvocato Micol Missana, già presidente e tesoriere dell’associazione italiana giovani avvocati di Lecco, nonché componente del team legale dell’associazione DonneXStrada, associazione non profit che si occupa di violenza contro le donne e sicurezza in strada tramite i “punti viola” e una rete associata di psicologi e avvocati.
Avvocato Missana, quali sono le tappe principali dell’evoluzione del reato di stupro nel sistema legislativo italiano dal punto di vista normativo?
Nel primo codice penale dell’Italia unita, il cosiddetto Codice Zanardelli del 1889, i reati sessuali venivano distinti in violenza carnale e atti di libidine violenti, differenziandosi sulla circostanza che si fosse o meno consumato l’atto sessuale completo.
Chiaramente, i Giudici del tempo, per verificare se il reo avesse commesso una violenza carnale o un atto di libidine, svolgevano una vera e propria analisi del fatto, costringendo la vittima, in udienze pubbliche, alla dettagliata ricostruzione delle dinamiche dell’atto, al cui esito, molto spesso, la donna appariva come colei che aveva scatenato l’appetito sessuale dell’uomo.
Entrambi i reati erano collocati all’interno dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, in quanto assumevano valenza unicamente in ragione delle conseguenze pubbliche del fatto criminale, e cioè come crimini contro l’onore e la reputazione della famiglia e contro la potestà familiare del marito o del padre verso la donna vittima di violenza. In altre parole, veniva accordata tutela alla donna soltanto in funzione del suo ruolo sociale e nella famiglia, e quindi come figlia/moglie devota, madre e rispettosa del padre/marito.
Cosa cambiò con il codice Rocco?
Anche il successivo Codice Rocco, del 1930 e tuttora vigente, disciplinava i delitti di violenza carnale e di atti di libidine, collocandoli tra le fattispecie poste a salvaguardia “della libertà sessuale” e, più specificatamente, “della moralità pubblica e del buon costume”.
Il nuovo Codice continuava a ritenere detti reati come avvenuti non contro la persona che li subiva, infatti la libertà sessuale non veniva considerata come diritto personale, ma contro la pubblica moralità, e quindi, ancora una volta, contro l’onorabilità della famiglia e dell’irreprensibilità delle condotte di tutti i suoi membri. Tanto che, qualora la donna-vittima fosse stata non maritata o addirittura fosse considerata “di facili costumi”, le pene erano addirittura ridotte.
Quando si verificò il cambio di prospettiva che ha portato alla situazione attuale?
Soltanto grazie ai numerosi, tristi, fatti di cronaca che si sono susseguiti negli anni ’60 e ’70, e ai movimenti femministi che in quegli anni hanno duramente protestato in favore di una maggiore tutela della donna, in quanto tale e non solo in quanto moglie/figlia/madre, il legislatore ha finalmente cambiato prospettiva.
È stato possibile mettendo in atto diverse riforme, sia nel diritto di famiglia sia nel codice penale, introducendo, con la Legge n. 66 del 15.02.1996, il reato di violenza sessuale (o stupro), come delitto contro la persona: la riforma pone finalmente l’accetto sulla libera autodeterminazione della donna nella propria sfera sessuale, mettendo definitivamente da parte quella visione autoritaria e paternalistica che impediva la tutela della donna proprio in quanto persona.
Oggi lo stupro, disciplinato ex art. 609 bis del codice penale, punisce chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, “costringa taluno a compiere o subire atti sessuali”, comminando una pena alla reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Questa evoluzione è stata accompagnata, nella storia di oltre un secolo dal primo codice penale del 1889, da una serie di fatti di cronaca che hanno acceso i fari sulla necessità di leggi ad hoc: quali sono stati i più rilevanti?
Esatto. La vera svolta storica arriva nel 1965, con la storia di Franca Viola che, dopo essere stata rapita e stuprata violentemente, si sottrasse al matrimonio riparatore. Era infatti possibile assolvere il reo dal reato di violenza carnale se avesse poi sposato la donna stuprata. Franca Viola invece denunciò il suo rapitore, Filippo Melodia. E malgrado i tentativi di screditare la donna e l’ambiente ostile, Melodia fu condannato a 11 anni di carcere.
Dieci anni dopo, nel 1975, il “massacro del Circeo”, che ha visto come vittime due ragazze, Rosaria (deceduta a seguito dei fatti) e Donatella, brutalmente picchiate e stuprate per due giorni da tre ragazzi della “Roma bene”, Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, sconvolse tristemente l’opinione pubblica, riaccendendo i riflettori sulla violenza carnale. A seguito dei fatti del Circeo, per la prima volta, migliaia di donne e movimenti femministi si sono riuniti in proteste e grandi manifestazioni in piazza per sottolineare la problematica della violenza maschile contro le donne, spesso proprio giustificata partendo dalle abitudini, sessuali o meno, della donna stessa.
Altro caso che suscitò l’indignazione pubblica è quello di Fiorella, 18 anni, che nel 1978 denunciò la violenza carnale subita da quattro uomini, fra cui Rocco Vallone, un suo conoscente. Fiorella dichiarò di essere stata invitata da Vallone in una villa di Nettuno, per discutere una proposta di lavoro come segretaria presso una ditta di nuova costituzione, di essere stata sequestrata e violentata per un pomeriggio intero da Vallone stesso e da altri tre uomini. Il processo venne ripreso dalla televisione di Stato e fu mandato in onda dalla Rai, il 26 aprile 1979, ed è oggi anche disponibile su Youtube. Quella sera le televisioni italiane trasmisero lo spettacolo di una mentalità capace di trasformare la vittima in istigatrice e quindi imputata.
Cosa cambiò dopo questi avvenimenti?
È proprio anche grazie a questi avvenimenti di cronaca, a queste donne e ai movimenti femministi che è stato possibile ottenere numerose leggi: tra il 1968 e il 1969 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie, nel 1970 è stata approvata la legge sul divorzio (L. 01 dicembre 1970, n. 898), nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, è stata abolita l’autorità maritale e riconosciuta la parità delle donne all’interno della famiglia, nel 1978 alle donne è stato riconosciuto il diritto ad abortire (L.194/1978) e, da ultimo, nel 1996 – quasi vent’anni dopo il massacro del Circeo – è stato introdotto il reato di violenza sessuale come delitto contro la persona.
Come è cambiata dal punto di vista culturale la considerazione di questo genere di reati dalla fine del 1800 a oggi? Quanto hanno influito e quanto pesano ancora oggi le discriminazioni di genere?
La fattispecie penale del reato di violenza sessuale è in continuo mutamento, seguendo la crescente maggiore sensibilità ed evoluzione culturale dell’opinione pubblica verso il rispetto della libertà sessuale e di autodeterminazione delle donne.
Purtroppo, però, ancora oggi, i processi per stupro sono segnati dalla discriminazione di genere. Infatti troppo spesso, tanto nelle aule giudiziarie quanto sulle tv generaliste e sulla carta stampata, i casi di stupro vengono analizzati e trattati ponendo l’accento sulla vittima, sulle circostanze in cui si svolti i fatti, finanche invitando le donne a non indossare la gonna o a non bere troppo, correndo il rischio di attirare attenzioni sessuali non desiderate: è il cosiddetto victim blaming, o colpevolizzazione della vittima.
Si pensi che, durante il processo per stupro subito da Fiorella, nel 1978, gli avvocati di Vannone, esplicando la propria difesa, gettavano ombre sulla vittima stessa, stigmatizzando come “…se questa ragazza si fosse stata a casa (ndr era stata invitata per un colloquio di lavoro), se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente… Lei non dice che le hanno fatto violenza e non può dirlo, perché non ci sono i segni”. Queste parole risultano ancora tristemente attuali, laddove si invitano le ragazze a non uscire di casa per evitare di incontrare “il lupo”.
Quanta strada rimane ancora da percorrere? Quali dovrebbero essere dal suo punto di vista le evoluzioni del sistema legislativo per rispondere al meglio alla effettiva tutela delle donne vittime di stupro?
Dagli anni ’60 ad oggi il quadro normativo è mutato, ma molti passi avanti devono ancora essere fatti: l’art. 609-bis c.p. ha mantenuto la scelta di imperniare la condotta incriminata sugli elementi della violenza e della minaccia come mezzi tipici per obbligare al rapporto sessuale, laddove avrebbe dovuto invece elevare ad oggetto della tutela la libertà in sé, indipendentemente da imposizioni che si traducano in violenza o minaccia.
Sarebbe quindi opportuno intervenire nuovamente sulla norma, eliminando i riferimenti alla “violenza” e “minaccia” e preferendo la dizione “contro la volontà” o “contro il consenso della vittima”. Così, si riuscirebbero a ricomprendere in modo più immediato nel reato di violenza sessuale anche i particolari casi di violenza del coniuge (o comunque del partner) o di parenti o altre autorità, dove la maggior parte delle volte l’atto sessuale non viene imposto con violenza o minaccia.