Palingen, la sartoria sostenibile che dà lavoro alle detenute di Pozzuoli

Scritto da Ettore Benigni
Giornalista

Il fondatore del progetto, Marco Maria Mazio: “Vogliamo consentire alle persone che sono in carcere di mettere a frutto la loro creatività e di avere una seconda chance"

L’idea di dare vita a Palingen, una sartoria sostenibile all’interno del carcere di Pozzuoli, è nata dal fondatore Marco Maria Mazio, avvocato, da un’esperienza personale: nel 2014, quando facevo il tirocinio presso uno studio legale, collaborava part-time come educatore nel carcere femminile di Pozzuoli. “A spingermi è stata la volontà di capire cosa c’era dietro queste mura – racconta – ho conosciuto le ragazze e sono rimasto sbalordito dal loro talento e dalla loro creatività, dalla loro voglia di riscatto, dal loro desiderio di avere una seconda chance nella vita e di impiegare in modo costruttivo il tempo che avevano a disposizione durante la detenzione. Un tempo che se viene gestito nella maniera migliore può diventare proficuo e segnare un momento di svolta per chi ha un passato di disagio sociale. Se le persone vengono dimenticate, invece, quel tempo è deleterio, perché si rischia di uscire dal carcere peggio di come ci si era entrati”.

Come è passato da questa presa di coscienza all’azione?

A spingermi è stata la constatazione che lo strumento più efficace per consentire a una persona, che non corrisponda a un profilo violento o di particolare pericolosità sociale, di reinserirsi nella società è il lavoro, che consente di guadagnarsi un’emancipazione economica e di competenze. Così, dopo aver proseguito con la mia esperienza professionale di avvocato, prima a Bruxelles e poi a Milano, nel 2019 è arrivato il momento di fondare Palingen. Ma a causa dell’emergenza Covid l’attività del laboratorio è effettivamente partita nel 2021.

Come avete fatto, tecnicamente, a dare vita al progetto?

Abbiamo partecipato a un bando attraverso il quale l’amministrazione del penitenziario femminile di Pozzuoli concedeva in gestione a una società privata il laboratorio di sartoria all’interno del carcere per creare un’opportunità di inserimento lavorativo reale. Ci siamo aggiudicati la concessione e il carcere, grazie a un finanziamento della Cassa delle ammende, ha acquistato dei nuovi macchinari. La prima squadra era composta da 4 ragazze, e oggi diamo lavoro a 12 detenute.

Ci spiega come funziona l’attività del laboratorio?

Si tratta di un laboratorio sartoriale B2B: produciamo per conto terzi per il mondo della moda, quindi capi di abbigliamento finiti white label. Un servizio di manifattura che ha un impatto sociale, per il reinserimento delle detenute, e ambientale, perché diamo nuova vita agli scarti di produzione che ci vengono forniti dalle aziende. Oltre a questo, lavoriamo anche con società che ci commissionano lavori di gadget, merchandising e corporate gifting Made in Italy, che verranno poi utilizzati per eventi aziendali o regali di Natale per i dipendenti, i clienti o i collaboratori, dalle cravatte ai foulard, soltanto per fare qualche esempio.

E qui entra in gioco l’economia circolare…

Sì, perché i prodotti vengono realizzati utilizzando le eccedenze di produzione che ci vengono donate da una serie di aziende tessili e del mondo della moda, che noi rielaboriamo e reimmettiamo nel circuito contribuendo al riutilizzo dei materiali, uno dei principi dell’economia circolare.

Perché ha scelto la formula dell’azienda “for profit” per Palingen?

Credo che la cornice di un’azienda con logiche for profit e di business sia l’unico modo per crescere, dal momento che mi pare ormai dimostrato che la filantropia non è sostenibile nel lungo periodo. Credo sia l’unico modo per dare veramente un’anima di rieducazione al progetto e instaurare da subito le logiche del mercato del lavoro, quelle che le ragazze si troveranno ad affrontare una volta scontata la pena.

Su quali progetti siete impegnati per continuare a sviluppare la vostra idea?

Il primo è stato, soltanto poche settimane fa, l’apertura di uno spazio, un altro laboratorio, all’esterno del carcere, sempre nel Comune di Pozzuoli. Questo per dare continuità al processo di inclusione lavorativa delle ragazze e dare una risposta a una situazione che altrimenti avrebbe danneggiato sia loro, sia Palingen. Perché una volta scontata la pena noi avremmo perso una risorsa formata, mentre la ex detenuta avrebbe dovuto cercare un altro lavoro. Così invece siamo in grado di offrire anche un’alternativa lavorativa post detenzione, e di contribuire nel nostro piccolo ad abbattere le possibilità di recidiva. Il secondo progetto vedrà la luce a inizio 2024, quando organizzeremo percorsi di formazione e inclusione in partenariato con centri antiviolenza per rivolgerci anche a donne vittime di violenza e di tratta.

Cosa c’è all’orizzonte per Palingen?

Al momento nel nostro laboratorio esterno lavorano in tre, ma progressivamente potremo arrivare a dare lavoro a venti persone. Infine, abbiamo ricevuto e riceviamo tante proposte di collaborazione, e al momento stiamo parlando con due strutture carcerarie, una in Sicilia e una in Abruzzo, per capire se ci sono le condizioni per portare anche lì il nostro progetto, grazie alla sensibilità di alcuni direttori verso queste tematiche e alla loro voglia di fare squadra con il mondo dell’impresa.

Che tipo di feedback state ricevendo dalle detenute, dall’amministrazione carceraria e dal territorio?

L’aspetto più importante è l’impatto sulle detenute: hanno incredibilmente apprezzato la possibilità di uscire dalla cella e andare in uno spazio dove c’è lavoro di squadra, concentrazione, armonia, impegno e motivazione. Il lavoro è un’opportunità per vivere alcune ore in totale estraneità dal disagio del carcere e dalle condizioni in cui gli istituti versano a causa del sovraffollamento, un modo per sfuggire all’apatia e alla noia. Hanno dimostrato entusiasmo verso il progetto e hanno colto il senso dell’opportunità di darsi una seconda chance e di sperare in un futuro migliore.
Quanto all’amministrazione del carcere femminile di Pozzuoli e al reparto pedagogico-formativo, hanno dimostrato visione e sensibilità promuovendo questa attività. Senza il loro sostegno questa esperienza non sarebbe mai nata: credo si tratti di una partnership virtuosa tra il pubblico e il privato. Quanto al territorio, anche in questo caso constato che sia i clienti sia gli addetti ai lavori guardano con positività a questa esperienza. In tanti si sono messi a disposizione per darci una mano, dimostrando che la solidarietà è contagiosa.