In una società italiana che ci vuole sempre più performanti e veloci, scopriamo insieme l’African time che scandisce la vita qui in Kenya
Sono cresciuta in una parte di mondo dove quasi sin da subito mi è stato inculcato di dover essere la migliore, la più veloce e la più competitiva.
L’assenza di desiderio verso una di queste tre cose sembrava indicare un’unica grande certezza: nella vita sarei stata una fallita.
Credo ci sia questo schema alla base delle esistenze sempre più performanti che la società italiana ed in generale europea promuove nei bambini e nei ragazzi sin dai primi anni di scuola.
Non basta più produrre o essere in grado di farlo, bisogna anche saperlo fare nel più breve tempo possibile, con i migliori risultati possibili e battendo più avversari possibili.
Una gara contro tutto e contro tutti dove però, alla fine, non si vince mai perché ogni volta che si raggiunge un risultato, l’asticella viene alzata e ti ritrovi con un pugno di mosche in mano inevitabilmente domandandoti se tutto quel correre, poi, ne valeva la pena.
Ho trascorso i primi vent’anni della mia vita (oggi ne ho trenta) a sentirmi in dovere di dimostrare il mio valore. Non sapevo a chi, esattamente, dovessi farlo capire, che valevo, ma sapevo di dover sbracciare quanto più forte mi era possibile per arrivare su un podio immaginario che qualcuno aveva messo nelle varie tappe della mia vita.
Quando fui ammessa in una delle università delle arti più prestigiose di tutto il Regno Unito non avevo la benché minima idea di quanto competitivo fosse davvero il mondo delle università anglosassoni (cosa che al confronto il mio piccolo liceo classico a Genova era un parco giochi).
Capii sin da subito che se avessi davvero voluto sfondare, se avessi davvero voluto diventare qualcuno, dovevo fare cose strabilianti, miracolose… pericolose.
O diventavi una insaziabile reporter di guerra che schivava mine antiuomo come fossero uova marce oppure… non eri nessuno.
E fu su questa scia di affanno e concitazione che al mio primo anno di università partii per il Brasile con l’intento di documentare un fenomeno chiamato turismo sessuale minorile (di cui purtroppo noi italiani siamo fautori) e al secondo anno mi recai in Kenya per raccontare la vita all’interno delle baraccopoli e delle discariche intorno alla capitale del paese.
Quello che però non sapevo, o meglio, non conoscevo, era il cosiddetto “African time”. Un modo di vivere, anzi, di prendere proprio la vita, completamente all’opposto di quello che mi avevano insegnato.
In Kenya una delle cose che più mi sentii ripetere quando avevo scadenze urgenti, consegne imminenti e lavori da terminare era: “pole pole” che in lingua swahili significa “piano”, “con calma”. All’apparenza potrebbe sembrare una cosa banale ma nella realtà quasi tutta la società keniana si basa su quel “pole pole”.
Un motto, uno stile di vita che mi ha completamente sconvolto all’inizio. Come è possibile che con tutte le cose da fare che nella vita ci sono, ci si possa permettere di rallentare? Di riposare? Di non performare?
Era incredibile, per me, capire che esisteva un altro modo di prendere le cose, di vivere la vita.
E non si trattava di pigrizia, no. Era un qualcosa di più raffinato, di più ragionato: non vale la pena affannarsi, non vale la pena ammazzarsi, goditi il viaggio, goditi il momento, goditi la vita.
Capii che l’African time non era solamente qualcosa di astratto, non era un semplice luogo comune, ma un vero e proprio stile di vita. Quello che poi, oggi, abbiamo imparato anche noi a identificare e ad apprezzare con il termine inglese “Slow living” che, letteralmente, significa “il vivere lento”. Un concetto che si basa sulla capacità di rallentare, di lasciare andare e di non vivere nell’affanno di performare.
Perché come si dice qui in Kenya: “Haraka haraka, haina baraka” (la troppa fretta non porta fortuna) e forse un po’ tutti dovremmo ricordarcene.
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