Violenza di genere, tra gli adolescenti ancora troppi stereotipi

Scritto da Ettore Benigni
Giornalista

I dati della ricerca di Save the Children: anche con la rivoluzione digitale rimane una carenza di consapevolezza tra i giovani, che spesso accettano la colpevolizzazione delle vittime, le forme di controllo e la condivisione di fotografie intime

Ai tempi della rivoluzione digitale gli stereotipi di genere resistono e sono ancora radicati, anche tra gli adolescenti. È quanto emerge dalla ricerca “Le ragazze stanno bene? Indagine sulla violenza di genere onlife in adolescenza”, realizzata da Save The Children in collaborazione con Ipsos, e pubblicato nel 2024 alla vigilia di San Valentino. A fare il punto sui risultati della survey e sul loro significato è Antonella Inverno, responsabile ricerca e dati di Save The Children.

Di cosa parliamo?

Cosa vi ha colpito di più?

Le ragazze stanno bene?” ha acceso un faro su diversi aspetti particolarmente interessanti nel campo della violenza di genere, a partire dal fatto che su alcuni stereotipi di genere i ragazzi oggi risultano essere decisamente più indietro degli adulti. Un secondo aspetto è l’esperienza che i ragazzi e le ragazze hanno con il proprio corpo, perché in un contesto sempre più mediato dalle tecnologie digitali alcune esperienze sembrano “smaterializzarsi”.

Partiamo dal primo aspetto: perché i giovani sono più indietro degli adulti?

La prima e più semplice causa può essere il fatto che l’esperienza di vita fa la differenza: è più facile che una persona più avanti con gli anni abbia vissuto sulla propria pelle o nel proprio contesto ristretto di riferimento alcune situazioni di discriminazione o violenza di genere e ne abbia tratto insegnamento. Ma non è tutto qui. Una seconda spiegazione può derivare anche dalla strada imboccata dal dibattito pubblico nell’ultimo periodo, che ha dato nuovo spazio ai luoghi comuni segnando di fatto una battuta d’arresto nella strada che porta alla rimozione degli stereotipi di genere. È interessante tra l’altro notare come dallo studio emerga che gli stereotipi siano radicati non soltanto nei ragazzi, ma anche nelle ragazze.

Del rapporto con il corpo, cosa è emerso di interessante?

Abbiamo notato una sorta di contraddizione: da una parte le relazioni tra ragazzi e ragazze sono sempre più spesso mediate dalle tecnologie digitali, molti di loro, ad esempio, inviano e ricevono foto intime, accettando questa situazione come se fosse un fatto normale. Alcuni ci dicono anche che se si accetta di inviare una foto si sa già in partenza che questa potrà circolare: sembrerebbe un atteggiamento sinonimo di estrema libertà, ma non è fino in fondo così.

Perché?

Perché quegli stessi ragazzi che accettano con preoccupante leggerezza la circolazione online delle proprie foto intime sono spesso sottoposti a forme di violenza o di controllo a cui non possono o non riescono a sottrarsi. Quando si è in coppia, ad esempio, i ragazzi utilizzano le tecnologie per controllare il partner, per sapere dove si trova o come è vestito, per forzarlo a non accettare determinate richieste di amicizia, o per chiedere la password degli account social e vedere con chi chattano e hanno contatti. Si tratta di pratiche diffusissime tra i giovani di entrambi i sessi. L’interrogativo che ci poniamo è quanto questo genere di comportamenti sia considerato normale da parte di chi li compie o li subisce. Perché se una vittima non si sente vittima, non percepisce di subire un comportamento inaccettabile, è difficile intervenire.

Possibile che l’esperienza dei genitori non sia passata ai figli?

I dati della nostra ricerca sembrano andare proprio in questa direzione, sembra che tante lotte fatte finora abbiano soltanto scalfito un sistema patriarcale stando al quale se si porta la minigonna si è almeno in parte responsabili di ciò che succederà. Ma c’è anche da sottolineare che il dibattito pubblico non ha favorito la presa di coscienza, dal momento che assistiamo ogni giorno a una recrudescenza di uscite che colpevolizzano le vittime invece che tutelarle.

Anche per questo la ricerca è stata accompagnata da una campagna social?

Attraverso l’hashtag #chiamalaviolenza abbiamo voluto tenere alta l’attenzione sulla violenza e le discriminazioni di genere. Anche perché sono proprio i fatti di cronaca a dirci che i reati – a partire dai femminicidi – non accennano a diminuire, e quindi a maggior ragione è necessario rimanere impegnati e focalizzati su questi temi, come sta facendo il Movimento Giovani di Save the Children.

C’è molto da fare, è necessario scardinare molti luoghi comuni.

  • Antonella Inverno, responsabile ricerca e dati di Save The Children

Quali azioni immaginate per risolvere il problema delle discriminazioni di genere?

Credo che ci sia un passaggio culturale fondamentale da compiere: assumersi la responsabilità, nel discorso pubblico, di non trasmettere questo genere di stereotipi. Poi sarà fondamentale investire sull’educazione, smascherando atteggiamenti e retro-pensieri che fanno parte di una cultura patriarcale in cui tutti siamo cresciuti. In altre parole, credo sia molto importante che tutti possano reinventarsi nei propri ruoli, senza che nessuno debba sentirsi ingabbiato in una “parte” in cui debba reagire in modo predeterminato. Per riuscirci serve un lavoro approfondito a partire dalle scuole, e non soltanto attraverso i docenti, ma anche attraverso personale specializzato e una serie di piccole cose, a partire dai giochi.