Attrazione turistica etica oppure ennesimo caso di sfruttamento della povertà?
Da quando mi sono trasferita a Nairobi ho avuto l’occasione di osservare in maniera più approfondita ciò che il turismo offre a livello locale. Mi è bastato aprire il mio computer e cercare su Google “cosa fare a Nairobi” per scoprire che la città offre decine e decine di attrazioni turistiche diverse, sia per chi vive qui sia per chi è di passaggio.
Ma quali, tra queste attività, sono davvero etiche, sostenibili e rispettose di ambiente, fauna selvatiche e tessuto sociale?
Ahimè la risposta è: poche.
Quali siano realmente le cause di queste offerte cosi poco consapevoli non spetta a me dirlo – non sono un’esperta. Posso avanzare un’ipotesi: molte di queste attività affondano le loro origini nell’epoca coloniale. Epoca nella quale vi era molta meno consapevolezza e conoscenza circa determinate tematiche. Nonostante oggi si abbiano a disposizione ben più strumenti per analizzare la realtà che ci circonda, ancora fatichiamo – mi pare evidente – a staccarci da quel retaggio.
Tra le attrazioni turistiche più gettonate vi è la possibilità di trascorrere una giornata presso una “tea farm” – una piantagione di tè – durante la quale vengono organizzate diverse attività. Dalla raccolta delle foglie di tè nella vera e propria piantagione, il pranzo all’aperto, la degustazione di varie tipologie di tè, trekking nella natura. Come tante persone che vivono a Nairobi ma che non sono kenyane venni attratta dall’idea di passare una giornata all’aria aperta e lontano dal caos cittadino.
Una volta arrivata a destinazione, qualche chilometro fuori Nairobi, mi sembrò di immergermi in una realtà bloccata nel tempo: la casa in perfetto stile coloniale che pareva scrutare l’intera piantagione dall’alta collina, il brunch all’inglese servito in porcellane bianche. Persino l’aria, in quel luogo, sembrava diversa.
La figlia dei proprietari della piantagione ci accolse raccontandoci la storia della sua famiglia e di come i coloni inglesi rubarono e depredarono prima suo nonno e poi suo padre della ricchezza che si estendeva su quelle colline. Ci spiegò della lotta, della resistenza, del riscatto non solo della sua famiglia ma di tutti i lavoratori kenyani che si vedevano sottratte tutte le cose più preziose dai coloni senza alcun tipo di diritto o spiegazione. Ammetto che rimasi affascinata.
Non credo sia un segreto il mio anti razzismo e quella storia di lotta e rivincita non solo famigliare ma anche dell’intero paese nei confronti degli oppressori mi esaltava!
A quel punto, dopo aver mangiato gustosissimi scones e crema di burro artigianale, bevuto un ottimo infuso caldo di Hibiscus, venimmo invitati ad incamminarci verso la vera e propria piantagione: era il momento di provare l’esperienza di raccogliere le foglie di tè. Foglie che sarebbero successivamente state utilizzate per simulare il procedimento della realizzazione delle foglie di tè che poi vengono messe in commercio. Ci munimmo di cestini, ci venne spiegato quali tipi di foglie raccogliere e mostrata la parte di piantagione da cui raccoglierle.
Sembrava un’attività divertente. Mi piace imparare nuove cose. Mi sentivo bene, che male stavo facendo?
Mi sbagliavo. Eccome se mi sbagliavo.
Alzai la testa mentre ero ritenta a riempire il mio piccolo cestino. Scorsi una donna, poi un’altra e un’altra ancora. Un ragazzo, probabilmente minorenne. Tutti ripiegati su loro stessi, non alzavano mai nemmeno lo sguardo e la velocità delle loro mani sulle piante di tè era affascinante e spaventosa allo stesso tempo.
Non ricordo chi, del gruppo con cui ero, chiese di loro: i tea pickers – i raccoglitori di foglie di tè.
La proprietaria, la stessa donna che qualche attimo prima ci aveva raccontato entusiasta della lotta della sua famiglia contro il colonialismo, descrisse con estrema spontaneità la vita che un tea picker generalmente conduce nella loro fattoria. Pagamento a peso: ogni chilo di foglie qualche scellino. Malattie non pagate. Orari di lavoro senza limiti.
Disse anche – e lo ricordo con un certo orrore – che la loro paga giornaliera fosse tra le più alte tra le piantagioni della zona. Ricordo anche che la cifra da lei menzionata non raggiungeva neanche lontanamente i dieci dollari al giorno.
Mi sentii subito a disagio.
Stavo facendo un’esperienza. Sì, un’esperienza che simulava la vita di sfruttamento di quei lavoratori. Io, però, avevo addirittura pagato per farlo e nessuno di quei soldi sarebbe finito in tasca loro.
Mi vergognai. Mi vergognai moltissimo.
Il resto della giornata lo trascorsi nella mia testa: era davvero questa la nostra umanità? Liberarsi dagli oppressori solo per generare nuovi oppressi? Usare gli oppressi per generare nuovi incassi?
E chi siamo noi? Chi vogliamo essere noi? Da che parte vogliamo stare noi?
Oppressi o oppressori?
Io la mia risposta adesso la so.