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Uno e Sette, il co-housing che fa spazio all’accoglienza

Sei famiglie che condividono gli spazi di un condominio a Usmate Velate, nella provincia di Monza-Brianza. Ognuna ha un appartamento e tutti usufruiscono delle aree comuni, all’insegna della sostenibilità

Per realizzare un progetto di co-housing come Uno e Sette, a Usmate Velate, piccolo centro con poco più di 10mila abitanti in provincia di Monza-Brianza, sono stati necessari più di 10 anni: dall’acquisto del terreno adatto fino alla realizzazione del progetto e alla costruzione di una casa che fosse adatta alle esigenze di tutti e il più possibile sostenibile.

Ma nonostante un iter lungo e a tratti faticoso, la sensazione che si ha a parlare con Luca Giovenzana, 40 anni, informatico, uno dei componenti delle sei famiglie che sono impegnate nel progetto, è l’entusiasmo di essere coinvolto in un’esperienza che mette al centro le relazioni tra le persone e la voglia di condivisione. Ogni famiglia ha uno spazio privato e tutte insieme usufruiscono di spazi comuni, dalla sala hobby alla mansarda per i pigiama party agli spazi all’aperto. I residenti di Uno e Sette hanno anche fondato un’associazione per mettere a disposizione di chi è in difficoltà un monolocale, il settimo appartamento della struttura, grazie a una collaborazione con la Onlus “La Grande Casa”. In questi giorni l’ospite è Musah, un ragazzo originario del Ghana.

Luca, ci racconti intanto qualcosa in più della tua storia?    

Inizierei dal fatto che sono papà di quattro figlie, tutte femmine, e che nel mio lavoro, occupandomi di tecnologia, mi sono reso conto di quanto la parte relazionale sia importante anche quando si tratta di sviluppare software o prodotti digitali. Sono manager in ambito tecnologico ma soprattutto startupper: in questo momento, dopo aver fatto una bellissima esperienza nello scale-up della piattaforma di streaming Chili, seguo due startup appena partite. Questo per dire che il rischio e il “sognare in grande” fanno un po’ parte della mia attività quotidiana, un’attitudine che sicuramente ha giovato al progetto di co-housing che abbiamo realizzato.

Come è nata nel tuo caso l’idea?

Direi che tutto è partito dal percorso scoutistico: io e mia moglie siamo scout, e tra i valori dello scoutismo c’è quello del servizio, e noi ci siamo messi alla ricerca di una situazione in cui la quotidianità ci mettesse nella condizione ideale per vivere questo servizio verso gli altri.

Nel 2008 abbiamo partecipato insieme a una serata in cui si parlava di co-housing con Sergio Venezia, tra i primi in Italia a impegnarsi su questo tema oltre che fondatore di una delle prime botteghe eque e solidali in Italia. Da quel momento abbiamo proseguito e approfondito l’argomento, visitando altre comunità e partecipando alle loro attività, come nel caso del condominio solidale di Villapizzone, a Milano.

E come siete passati dall’idea ai fatti?

Abbiamo iniziato partecipando a un gruppo che era già strutturato, un’esperienza da cui abbiamo imparato molto e che ci è servita per formare un gruppo nuovo. Abbiamo fatto girare la voce, ci siamo confrontati con molte persone e famiglie potenzialmente interessate, alcune si sono avvicendate nel tempo fino a che non siamo arrivati a sentirci pronti per partire.

Il percorso iniziale è complicato, perché si deve trovare un giusto equilibrio dal punto di vista economico, dello spazio, il numero giusto di partecipanti. E così dalla prima idea, nel 2008, siamo entrati in casa nel 2020: 12 anni intensi, ma ce l’abbiamo fatta. Oggi siamo sei famiglie, 12 adulti e 17 bambini, molto affiatate: insieme abbiamo fondato un’associazione per creare uno spazio di accoglienza, e scritto un manifesto con i nostri valori, che abbiamo più volte aggiornato nel corso del tempo.

Come avete fatto a trovare la sintonia per condividere una parte importante delle vostre vite?

Tutte le famiglie che si sono avvicinate al gruppo avevano una sensibilità al tema, nata da forme di associazionismo a cui avevano partecipato e in cui avevano già avuto modo di vivere in una dimensione comunitaria. In secondo luogo, trattandosi di un’impresa in tutti i sensi, quindi della creazione di una cooperativa edilizia per costruire la casa da zero oltre che di un percorso che richiede il superamento di diverse difficoltà, questo ha contribuito alla selezione: chi è arrivato in fondo era veramente motivato. Tanti nel tempo si sono avvicinati e quando hanno capito che la nostra idea non faceva al caso loro si sono allontanati. Un lavoro centrale è stata la scrittura e la condivisione del nostro manifesto, un modo per mettere in fila le priorità e i valori comuni.

Quali sono i valori che vi hanno guidato?

Nell’ideale volevamo una casa grande, con tanti spazi da vivere insieme, e super-ecologica. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale siamo riusciti a realizzare un progetto interessante, ma l’attenzione, almeno inizialmente, si è concentrata sul concetto di immaginare una realtà dove la porta è sempre aperta, dove se hai una “giornata no” qualcuno se ne accorge ed è pronto a tenderti una mano.

E poi abbiamo voluto dare una risposta a questioni pratiche, con la condivisione di tutta una serie di strumenti e servizi, dal trapano alla scala: perché dobbiamo averne uno a famiglia per un utilizzo minimo? Questa condivisione facilita le relazioni, e consente a ognuno di non doversi far carico di tutto, condividendo la responsabilità degli spazi e delle cose. Un principio che vale per il tavolo da ping-pong ma anche per accompagnare i ragazzi a scuola, ottimizzando i tempi.

Come è nato il progetto di accoglienza?

Abbiamo fondato associazione da subito, “Uno e Sette associazione di promozione sociale”, che fa attività di sensibilizzazione sul territorio ed è proprietaria del settimo appartamento. “La Grande Casa” ha creduto nel nostro progetto e ha preso in affitto il monolocale, e insieme valutiamo chi è possibile ospitare. Musah è il primo inquilino di questo progetto.

Tra i vostri valori c’è anche quello di dare vita a una casa sostenibile?

Certo, soprattutto grazie al fatto che abbiamo avuto la fortuna di avere un co-houser, che ha approfondito questo tema e ha diretto un gruppo tecnico sia interno sia di professionisti che ci hanno seguito, tra i quali un termotecnico di Parma, specializzato in case passive. Abbiamo in sostanza costruito una casa passiva, anche se non è certificata perché la certificazione avrebbe comportato una spesa troppo alta. La parte più innovativa riguarda gli impianti, dal momento che non abbiamo radianti, ma un sistema ad aria molto efficiente se la casa è sufficientemente isolata. Abbiamo ottenuto ambienti a bassissimo consumo con raffrescamento e riscaldamento sufficienti.

Passiamo alla gestione delle relazioni: quanto è difficile convivere? 

È probabilmente l’aspetto più complicato, ma abbiamo messo talmente tante energie in questo progetto che siamo arrivati preparati. Abbiamo imparato a conoscerci, abbiamo superato problemi piccoli e grandi, sfide che ci hanno messo in crisi. E oggi fila tutto abbastanza liscio, con problemi che potremmo definire “normali”.

È stato necessario dedicare una grande attenzione al modo in cui prendere le decisioni, perché se alcune cose sono andate magicamente a posto da sole, con il buon senso, bisogna in ogni caso stare attenti a non muoversi sul criterio della maggioranza, che per forza di cose creerebbe uno scontento in qualcuno. Per questo non votiamo mai, non deve esserci chi vince e chi perde. Lavoriamo molto sul consenso, sull’arrivare a una soluzione che vada bene a tutti. Per le decisioni più piccole, invece, manteniamo il principio che si procede a meno che qualcuno non sia palesemente contrario.

A questo si unisce un confronto continuo, con momenti di condivisione basati soprattutto sull’ascolto. Una volta ogni due mesi ci riuniamo senza bambini e una famiglia, a turno, porta un tema all’attenzione di tutti. Prepara spunti, qualcosa da leggere, e ogni persona si esprime liberamente senza che gli altri possano controbattere. Sono occasioni di riflessione profonda, in cui si crea condivisione, e grazie ai quali riusciamo a capirci meglio.

Quali sono state finora le criticità più importanti che avete affrontato?

Direi che l’ordine nella gestione degli spazi ci ha messo alla prova. Per arrivare a una soluzione abbiamo lavorato insieme a una facilitatrice esterna che ci ha aiutato ad affrontare le situazioni con un pregiudizio positivo. È fondamentale che l’aiuto sia venuto da fuori, perché in questo modo tutti abbiamo potuto partecipare al percorso di crescita.

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