Non c’è solo la possibilità di risparmiare, ma contemporaneamente una preferenza etica, una forte spinta ambientale, e il tocco di poesia che la ricerca lenta, la storia passata dell’oggetto, quindi la sua unicità, aggiungono a questa modalità di acquisto.
di Davide Cristaldi
Marzia Robba ha una lunga storia di frequentazione del mondo dell’usato, dai mercatini, ai negozi, alle app. Di famiglia originaria di Muggia (vicino a Trieste) ma nata a Milano, dove tra un giro per bancarelle e un altro fa la regia dei Tg, Marzia ci racconta cosa significa comprare tutto usato. Non è sempre stato così però: anche per lei c’è stato un inizio, una resistenza, un processo di acquisizione di consapevolezza, una scelta e infine anche il fiorire di una passione, “una patologia”, dice lei scherzando. D’altronde la radice delle due parole è la stessa.
Il modello di consumo della fast fashion e i costi ambientali della produzione di vestiti
A un primo approccio sembrerebbe che la scelta di non stare più al gioco della fast fashion sia una possibilità di classe, percorribile solo da chi può spendere di più. Da quando si è diffusa a partire dagli anni ‘80, infatti, la fast fashion ha permesso ai consumatori in tutto il mondo di spendere poco per comprare qualsiasi vestito, imponendo un modello di acquisto basato su un costo abbattuto rispetto al passato, su un veloce consumo e una veloce sostituzione del capo d’abbigliamento. Vestiti più economici ma di minore qualità e con una brevissima durata nel tempo.
La conseguenza è stata un grande aumento della produzione – e dello scarto – mondiale di vestiti: oggi – secondo una ricerca dal titolo “The environmental price of fast fashion“, pubblicata sulla rivista Nature – l’industria immette nel mercato il doppio delle quantità di vestiti rispetto a quelle prodotte nel 2000. Che erano già molto più di quelle di 50 anni fa.
Si tratta di circa 100 mld di tonnellate di vestiti all’anno. L’impatto ambientale di questa crescente produzione è alto, in particolare per tre aspetti: il consumo di acqua, l’inquinamento dei fiumi causato dalle tinture e l’emissione di gas serra.
Per esempio, per produrre una sola maglietta di cotone sono necessari circa 2.700 litri di acqua, l’equivalente di quanto basta al sostentamento di una persona per due anni e mezzo. Non solo, secondo uno studio citato sulla rivista scientifica Nature, l’industria dell’abbigliamento e delle calzature, in tutte le sue fasi, è responsabile dell’8% circa delle emissioni globali annue di gas serra. Per quanto riguarda l’inquinamento idrico poi, le sue tinture e le microplastiche disperse dal lavaggio e dallo scarto dei tessuti sintetici sono responsabili di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile. Per questo nel 2017 il documentario “River Blue“, vincitore di numerosi festival, si presentava con l’emblematico allarme “l’industria della moda sta uccidendo i nostri fiumi”.
Come nel caso della carne, i costi del sistema dell’abbigliamento oltre che sull’ambiente ricadono anche sulle persone, a causa dello sfruttamento della manodopera nei paesi poveri dove, per abbattere i costi, le aziende di tutto il mondo installano le fabbriche.
Non solo vestiti: una filosofia d’acquisto complessiva
Se l’attuale sistema permette di pagare poco i vestiti, l’esperienza di Marzia suggerisce che non è vero che i consumatori che non vogliono avallare i suoi meccanismi devono necessariamente potersi permettere la scelta sul piano economico. Non quando si comincia a considerare l’alternativa dell’usato, che è la più ecologica possibile, in quanto non implica produzione, e spesso la più economica.
Trainati dalla consapevolezza nei confronti dell’abbigliamento si può arrivare a una diversa filosofia di acquisto estesa a tutti i tipi di oggetti: “io adesso non posso più pensare di comprare una cosa nuova se prima non ho visto se esiste usata” racconta Marzia, con cui abbiamo esplorato il mondo dell’usato come scelta possibile in quasi ogni caso di acquisto, dal vestiario all’arredamento.
Did you know: The fashion industry is the second most polluting industry in the world.
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— UNCTAD (@UNCTAD) April 8, 2019
Come iniziare a comprare usato
Per quanto riguarda i vestiti anche Marzia non compra usato da sempre; ci spiega che capisce chi non è abituato, al quale può fare impressione indossare un vestito che non si sa di chi sia stato, più che l’idea dell’usato in sé. Lei ha cominciato per abitudine familiare con gli oggetti d’arredamento (librerie, lampade ecc.) che i genitori, appassionati d’arte e di design – il padre era scenografo -, compravano nei mercati milanesi quando era bambina. Come molti, per l’abbigliamento ha superato la resistenza iniziale per poi scoprire un mondo:
“Inizialmente non compravo vestiti usati. Quando è nata la mia prima figlia, ventuno anni fa, mia madre ci regalò una salopette per bambini usata. Quando l’ho scoperto, all’inizio mi sono un po’ indispettita. Non mi piaceva l’idea, perché una mamma per un figlio vuole solo il meglio ovviamente”. In realtà quello è stato il momento della consapevolezza. “Da quel momento ho cominciato a pensare che in fondo si poteva fare, che non è tanto differente da quando bevi il caffè in un bar, da una tazzina non tua, o quando dormi nel letto di un hotel, su delle lenzuola non tue, e ho cominciato prima a scambiare i vestiti dei bambini con gli amici, poi a comprare tutto al mercato”. Realizza insomma che anche per l’abbigliamento, così come con gli oggetti di arredamento ai quali era abituata, quando l’abito è in buone condizioni comprare usato si può: “lo lavo, lo disinfetto se necessario, e basta: posso usarlo”.
Dove si può comprare usato
A questo punto, se non si è frequentatori abituali ci si potrebbe chiedere però dove si compra usato, nelle grandi città come nei piccoli paesi. Ci spiega Marzia che in città esistono grossomodo tre possibilità per acquistare fisicamente abbigliamento usato: “La prima è il classico mercatino all’aperto o al coperto (solitamente aperti due o tre giorni a settimana, Ndr), dove trovi le bancarelle e i banchetti su cui è tutto ammucchiato e venduto a 1 euro, 2 euro, 3 euro e tu devi cercare… Non tutti sono portati per questo – a me fa impazzire – ma non tutti hanno l’occhio e l’attitudine, anche se ci si trovano a volte cose di grandi marche”. La seconda modalità si sta diffondendo particolarmente negli ultimi anni grazie anche a diverse catene che stanno aprendo punti vendita in tante città d’Italia: “I negozi (Humana, Kecè eccetera Ndr) e i mercati-evento (per esempio Vinokilo Ndr), che hanno prezzi un po’ più alti – ma comunque bassi – perché fanno una selezione delle cose più belle, le mettono in ordine e le espongono come un classico negozio d’abbigliamento”.
Poi c’è un’ulteriore possibilità, quella accessibile anche a chi vive fuori dai centri urbani: sono le tante app, da quelle generaliste (Subito, eBay, Shpock, Wallapop) a quelle specializzate nella compravendita di vestiti (Vinted, Depop), che coprono diverse esigenze, dalla vendita tra privati all’accesso agli articoli di rivenditori professionisti o di negozi. “Un ulteriore vantaggio delle app e dei siti – spiega Marzia – è che ancora più che nel negozio puoi cercare direttamente la cosa che ti serve, senza dover andare di persona a tentare la fortuna per vedere se quello che ti serve c’è o no”.
La convergenza di più motivazioni
Sulla scelta agisce più di una motivazione. Non c’è solo la possibilità di risparmiare, ma contemporaneamente una preferenza etica, una forte spinta ambientale, e il tocco di poesia che la ricerca lenta, la storia passata dell’oggetto, quindi la sua unicità, aggiungono a questa modalità di acquisto:
“Il senso dell’unicità, questo mi piace anche: un oggetto usato ha un vissuto, ha una storia passata, che tu continui – spiega Marzia – … per cui spesso il paradosso è che quell’oggetto forse vale di più, e lo paghi di meno. Il punto, secondo me, è rallentare. Anche nella ricerca, che così diventa un piacere, e alimenta il desiderio. La ricerca per mercatini è più lenta, perché non sempre trovi subito, e il desiderio così è vivo, meno passivo”. E così, volendo cedere alla poesia che Marzia racconta, forse in questo modo si ha a volte la sensazione di essere trovati dall’oggetto, e non il contrario.