La violenza economica è un tipo di violenza di genere radicata, interclassista e difficile da estirpare. Intervista alla prof.ssa Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics dell’Università Unitelma Sapienza, in libreria con “Le signore non parlano di soldi”, Fabbri Editori
La violenza contro le donne può avere diverse sfaccettature, gradazioni, e campi di applicazione. Può essere brutale e portare all’eliminazione fisica, oppure più subdola, sottile, psicologica ma non meno letale. C’è una violenza molto diffusa, interclassista, spesso non percepita come tale, a tratti accettata come un dato quasi ineluttabile: è la violenza economica. L’assenza di autonomia economica, di indipendenza e la mancanza di un rapporto con il reddito e il denaro sono alla base della violenza economica.
Delle origini, delle ramificazioni, delle conseguenze e di come fare per contrastare la violenza economica ne abbiamo parlato con la professoressa Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics presso Università Unitelma Sapienza, che al tema del rapporto tra donne e denaro ha dedicato il libro “Le signore non parlano di soldi”, Fabbri Editori.
Cos’è la violenza economica e come si può riconoscere?
Fino a pochissimo tempo fa non abbiamo avuto una definizione univoca del fenomeno, perché è talmente normalizzato e regolato da un punto di vista sociale, che abbiamo fatto fatica a individuarlo e dare una definizione chiara. In questo ci ha aiutato moltissimo la Convenzione di Istanbul, sottoscritta anche dall’Italia, che per la prima volta fornisce una definizione univoca di violenza economica, la inserisce in un documento ufficiale e la fa ricadere dentro la categoria più ampia della violenza domestica. Questo è stato un punto fondamentale. La violenza economica viene, quindi, definita come qualunque comportamento di controllo che l’abusante esercita rispetto alla capacità di una persona di produrre denaro e gestire in autonomia denaro.
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Perché è stato difficile definire la violenza economica?
Perché per noi è purtroppo normale vedere donne adulte chiedere la paghetta ai propri mariti, ai propri compagni e quindi rimanere in questa condizione infantilizzata. Perciò se sei bambina chiedi la paghetta al tuo papà, da adulta a tuo marito e quando il marito non c’è più continui a chiedere la paghetta a tuo figlio. Alla fine, non gestisci mai nulla.
È un tipo di violenza riconosciuta?
Non ancora. Consideriamo che moltissime, in Italia il 37%, non ha un proprio conto corrente. Cioè siamo un paese del G7, tra i più ricchi al mondo, e circa una donna su tre non ha un conto corrente proprio. Purtroppo, spesso si confonde il piano del progetto di vita di coppia con quello del denaro ma sono due cose diverse. E questo è effettivamente strumentale. Da poco abbiamo lanciato un progetto bellissimo, finanziato dalla Fondazione di Banca Etica, che si chiama “Monetine”, è un progetto di empowerment nei centri antiviolenza; quindi, è una formazione di empowerment finanziario che noi facciamo per le operatrici e per le donne che sono nei percorsi di uscita dalla violenza. E la variabile fondamentale che noi raccogliamo da queste donne è che loro non sono riuscite a uscire prima dalla situazione di violenza perché non avevano denaro proprio, perché non lavoravano e la loro principale preoccupazione era “dove vado” “come dò da mangiare ai miei figli”, “dove vado a dormire”?
Anche la dipendenza economica ha una matrice culturale?
Assolutamente sì, perché in realtà è associato a quelle immagini di femminilità depotenziata, cioè l’immagine della donna femminile, in bilico sui tacchi, scomoda e scollata, quindi a disagio, sorridente e garbata. E quindi tutto quello che esce da questo canone è tutto fuori dalla femminilità. Allora l’idea della dipendenza economica, in realtà, rientra pienamente nel canone della femminilità. La dipendenza economica in letteratura viene definita con tre caratteristiche: l’impossibilità a fare fronte a uno shock economico-finanziario, che può essere anche una banalità come una lavatrice che si rompe, la mancanza di controllo e di gestione, e la terza caratteristica è lo scollamento rispetto agli impegni di lungo periodo; quindi, non sapere se ci sono dei mutui, finanziamenti o, al contrario, se ci sono dei piani d’accumulo. Se consideriamo questi tre enormi fattori il 22% delle donne italiane è in una condizione di dipendenza economica e questo è un dato del 2022. Stiamo parlando di quasi una donna su quattro.
Questo dato lo troviamo anche in altri paesi europei?
No. In Germania siamo al 5%, in Slovenia al 7%, in Polonia al 10% e noi siamo al 22%. Allora è chiaro che qui c’è bisogno di un lavoro culturale. Quando ho scritto “Le signore non parlano di soldi” l’’idea è stata proprio quella di dire “Iniziamo a fare questa cosa, iniziamo ad abitare anche questo spazio”.
A questo punto io le devo chiedere perché le donne non parlano di soldi?
Allora qualche tempo fa ho fatto una survey alla buona, sui social raggiungo ogni giorno 50-60.000 persone a volte. Ho chiesto alle donne come si sentissero a parlare di soldi. Le risposte sono state rilevatrici, quasi tutti sentimenti negativi: disagio, ansia, fastidio, senso di inadeguatezza. Ad alcune ho chiesto se potessero dettagliare e anche mi hanno risposto di essere a disagio quando si parla di soldi perché non volevano apparire “super indipendenti” oppure ambiziose. Ecco l’economia femminista ha il pregio rispetto all’economia mainstream di aprirsi ad altre discipline perché con il canone puro dell’economia non cogliamo queste dinamiche che sono anche sociali, relazionali, psicologiche, rischiamo di non coglierle. Ecco in un sistema come il nostro se non aderisci al canone in qualche modo la paghi.
Negli ultimi anni spesso le aziende hanno utilizzato il tema del contrasto alla violenza di genere per fare quello che in gergo si chiama “Pink washing”. Come si riconoscono?
C’è una proxy facilissima: che sono quelle che si sentono soltanto il 25 novembre e l’8 marzo. Quest’anno, per la settimana del 25 novembre, ho accettato proposte solo da aziende che si occupano del tema tutto l’anno e non solo nelle date delle ricorrenze obbligate. Il 24 e il 25 non ho appuntamenti. Il 24 ho organizzato un evento in università dove dirò queste cose e il 25 non ho nulla. Io faccio questo lavoro e avrei potuto fatturare la metà di quello faccio in un anno, ma non ho niente perché ho messo questo discrimine. Però aggiungo anche un’altra cosa. Non siamo in una fase in cui possiamo permetterci di essere super choosy con il pinkwashing, meglio anche fare un solo evento. Infatti, su questo molte amiche femministe mi hanno criticato aspramente e la accolgo, cioè capisco questa critica.
Negli ultimi decenni le donne costituiscono la percentuale più alta di iscritte all’università e spesso sono loro ad avere i risultati migliori. Perché questi risultati non si ripercuotono anche sulla scalata alle posizioni meglio retribuite? Cosa inceppa il meccanismo?
La colpa è tutta del patriarcato e del fatto che, soprattutto quando diventiamo madri, il mercato del lavoro ci rigetta. A quel punto sono tutte le tue capacità e, mi sento di dire, anche di investimento collettivo che la società ha fatto su di te, non interessano più perché il tuo ruolo fondamentale puoi fare la madre. Quindi va bene se le donne prendono un part-time, va bene se ti licenzi abbiamo la Naspi, preferiamo pagare due anni di stipendio purché le donne si dedichino a fare le mamme e basta. Ma dopo due anni come fai a tornare in un mercato del lavoro come il nostro? E infatti molte donne fanno impresa perché le aziende non le riprenderanno mai. Il nodo fondamentale è quello della maternità, tant’è vero che noi vediamo che il tasso di occupazione delle donne in età fertile che non hanno figli è 20 punti percentuali più alto rispetto a quelle che hanno figli. Perché ovviamente mancano le infrastrutture, ma è anche una questione culturale. Perché quello diventa il tuo ruolo e anche questo è molto patriarcale: il maschio fa il bancomat, la femmina diventa madre. Nessuno dei due è veramente un essere umano, magari con le sue sane ambizioni e i suoi desideri.
In che modo, la difficoltà nel rimettersi in gioco dopo la maternità, influisce sulla propensione riproduttiva?
Secondo me sta iniziando a influire molto, e anche giustamente. Partiamo dal presupposto che nel mondo siamo in troppi e che l’Italia, come paese, esiste da ieri, non siamo ancora un paese unito; quindi, non vedo questa necessità di portare avanti i figli italiani, non la condivido. È venuta meno la necessità di fare tanti figli, perché siamo già in tanti. Le persone giovani e le donne, anche giovani, stanno dando un segnale che nessuno vuole ascoltare, cioè vogliono dire: “se questo sistema mi costa così tanto, se devo sacrificare tutta la mia vita, se mi farete comunque sempre sentire inadeguata ma sapete che c’è? Io non ne voglio sapere”. Questo sarebbe bello riuscire a raccontarlo in maniera tale da essere ascoltati. Quella della maternità è solo una funzione che si può attivare oppure no ma non è ti definisce in maniera automatica. E poi c’è tutto il tema della divisione dei compiti, dei ruoli che si rispecchia anche nella normativa. Oggi in Italia una donna ha un periodo di maternità obbligatoria di cinque mesi hanno solo 10 giorni retribuiti al 100%. E comunque il 57% dei neo papà non accede al congedo papà.
Perché l’abbattimento del soffitto di cristallo, cioè la possibilità anche per le donne di raggiungere ruoli apicali, dovrebbe interessare tutte le donne?
Io mi sento di dire perché non siamo delle monadi isolate nell’universo, perché siamo tutti collegati con le altre persone. Poi quello che noi vediamo è che quando le donne arrivano in posizione di leadership, non tutte le donne, ovviamente, infatti ci vorrebbero donne femministe, c’è un incremento di benessere, c’è più attenzione nei confronti dei temi della vita privata rispetto alla vita professionale, si abbassa il livello di testosterone, in economia e finanza comportamentale i picchi di testosterone sono legati a scelte avventate, inoltre le leadership femminili, tendenzialmente, sono più votate all’ascolto, non perché le donne siano strutturalmente così, ma perché sin da piccole ci insegnano a prenderci cura delle altre persone. Quindi direi per una questione di benessere collettivo e poi anche per un senso dello spirito di corpo. Quando una donna che ha a cuore i temi delle donne arriva una posizione di leadership io sono contenta per lei, così come sono contenta per tutte noi. Questo cambia anche il paradigma della leadership e normalizza il fatto che in posizioni di vertice, di potere possano esserci delle donne. E questo va benissimo per le mie figlie che vedono più cose che possono raggiungere e quindi abbattono il dream gap e va benissimo anche per chi ha figli maschi, che vedono come sia normale che a capo di qualche organizzazione ci sia una donna.
Vorrei chiudere la nostra conversazione con la richiesta di un consiglio. Nel suo libro, “Le signore non parlano di soldi”, lei scrive che le donne, proprio per questa difficoltà nel rapporto con il denaro, fanno fatica a valorizzare e a chiedere la valorizzazione del proprio lavoro. Può darci un consiglio, come si fa a chiedere il giusto riconoscimento per il lavoro svolto?
Vi do una notizia: il prossimo libro, che esce in primavera, ha un titolo molto vicino a questa domanda e l’idea è proprio quella di dare degli strumenti pratici, che partono, però, da una dimensione psicologica. Per poter andare a reclamare il tuo valore, tu prima lo devi vedere. Ci sono, in realtà, degli strumenti anche tecnici. Per esempio, bisogna scegliere il momento giusto, dobbiamo capire il contesto, la congiuntura, il momento globale, il momento nazionale, il momento dell’azienda. Poi ci sono una serie di passaggi come, per esempio, portare dei dati sulla base dei quali si chiede un aumento. Oppure bisogna spiegare perché siamo la soluzione a un problema. E poi, molto importante, bisogna essere rapide, perché la curva dell’attenzione ormai ha 8 secondi, gli esperti consigliano di non andare oltre i 30 secondi per la parte proprio più importante. Bisogna proprio fare le prove. Ancora, consiglio di aggiungere sempre una nota empatica, che può essere una cosa personale o una battuta. Le colleghe psicologhe e chi si occupa di neuroscienze ci dice che in questo modo si abbassa il livello di cortisolo, l’ormone dello stress e si abbassano anche le barriere delle persone nei confronti di chi sta parlando e quindi sono più disposte in realtà ad ascoltare. Ovviamente bisogna quantificare quanto si vuole, anche questo è un grandissimo gioco delle parti. Quando io faccio un preventivo per la mia società e i clienti mi dicono subito di sì, io mi mangio le mani, perché vuol dire che erano disposti a pagare di più.