Il cambiamento climatico nella città più a nord del mondo
Pearl Brower membro della comunità Inupiat e direttrice della Ukpeagvik Inupiat Corporation: “Se la scienza occidentale riconoscesse veramente l'importanza e la validità della conoscenza tradizionale, avremmo così tante opportunità di collaborazione e una conoscenza molto più ricca"
Nella parte più a nord degli Stati Uniti, nello stato dell’Alaska, c’è una città con più di 2000 abitanti, Utqiaġvik, una città che fino a pochi anni fa era chiamata Burrow, in omaggio al funzionario inglese Sir John Barrow. Si tratta dell’insediamento più a nord del mondo.
Le coste di questa cittadina sono lambite dal Mar Artico e, come sappiamo, lì nell’Artico i cambiamenti climatici corrono a un ritmo doppio rispetto al resto del Pianeta. Le condizioni di vita sono estreme, per le piante e gli animali, ma anche per i 4 milioni di persone che vivono nella regione. Le popolazioni indigene non ammontano a più di 400 mila individui, ma un numero preciso è difficile poiché i diversi Paesi hanno diversi concetti per definire una popolazione indigena. Quelle artiche stanno subendo rapide trasformazioni nel loro stile di vita, sia per effetto della globalizzazione, sia per effetto dei cambiamenti climatici. Ad esempio, le antiche tradizioni dei popoli Inuit stanno scomparendo alla stessa velocità con cui molte specie artiche diminuiscono rapidamente.
Di cosa parliamo?
La storia di Pearl
A spiegarci gli effetti del cambiamento climatico e il difficile rapporto che intercorre tra popolazioni indigene e comunità scientifica, è Pearl Brower membro della comunità Inupiat e direttrice della Ukpeagvik Inupiat Corporation, una delle più importanti società corporative di matrice indigena in Alaska, che si occupa di promuovere il ruolo della comunità Inupiat nell’economia artica, ormai in espansione dato il crescente interesse globale. La storia di Pearl è la storia di una donna tra le prime nella propria comunità ad aver ottenuto un dottorato, che ha diretto l’unico college indigeno dell’Alaska e ha ricoperto una carica importante all’Università dell’Alaska per il management della conoscenza indigena nell’Ateneo.
“Abbiamo visto le tendenze del riscaldamento del tempo e sta cambiando la dinamica di come possiamo interagire con il nostro ambiente – spiega Pearl il cambiamento climatico nell’Artico – abbiamo un clima più caldo, il ghiaccio non si forma rapidamente come nell’Artico settentrionale quando c’è molto freddo”. Inoltre, Pearl ci spiega che anche il vento e la neve stanno cambiando a causa del riscaldamento globale: “L’altra cosa davvero interessante è che ora stiamo ricevendo più nevicate. Siamo nell’oceano artico, nell’estremo nord degli Stati Uniti, fa molto freddo ed è molto nevoso ma tradizionalmente qui c’è molto vento. Poiché tutto si sta riscaldando, stiamo ricevendo più nevicate e neve più profonda in inverno e in primavera”.
La complementarietà fra la narrazione indigena e quella scientifica
“Come nativi dell’Alaska e indigeni, tutti questi cambiamenti – climatici – hanno effetto sul modo in cui interagiamo con il nostro ambiente e quindi su come possiamo sopravvivere con la terra e l’oceano in modi tradizionali e utilizzando le risorse che abbiamo a portata di mano”. Come ci racconta Pearl, i cambiamenti climatici portano turbamenti nella vita, negli usi e nei costumi delle popolazioni indigene dell’Artico, spesso in maniera forte e drammatica.
Da frontiera inospitale, dove solo la scienza osava avventurarsi, l’Artico è diventato terra di conquista. Interessi commerciali, militari e ambientali si muovono rapidi sullo scacchiere polare. La buona notizia, però, è che lassù sta prendendo forma una nuova governance ambientale, frutto dell’incontro tra scienziati polari e comunità indigene. Oggi gli scienziati polari possono contare su una miriade di dati, è vero, ma le regioni più remote dell’Artico sfuggono totalmente o in parte all’osservazione scientifica, e proprio qui le narrazioni indigene possono dare il loro più prezioso contributo.
Registratori acustici subacquei, palloni aerostatici, anemometri, spettrofotometri, droni e quant’altro raccolgono dati su dati. I droni arrivano là dove l’uomo non può, lo stesso vale per i palloni aerostatici ma, né gli uni né gli altri, stanno raccogliendo dati da migliaia di anni. È quello che fanno gli indigeni del Polo Nord. Questi indigeni posseggono una vasta conoscenza sulla sostenibilità delle risorse locali, sulle variazioni dell’ambiente che li circonda e sulle pratiche per farvi fronte. Una conoscenza accumulata nel tempo e tramandata di generazione in generazione per comprendere e prevedere la natura da cui dipendono.
L’avvicinamento è compiuto e le due conoscenze sembrano integrarsi. Ma non è così.
Spesso la conoscenza indigena è di difficile integrazione con quella occidentale e, il fatto che possa in parte contraddirla, crea dei bias non indifferenti negli occhi di chi ha prodotto questa scienza.
E qui sta il pomo della discordia. Le narrazioni dei popoli indigeni dovrebbero essere accolte dalla comunità scientifica senza pregiudizi, invece non vengono accettate perché non sono pubblicazioni sottoposte a valutazione tra pari, come accade nel processo scientifico attraverso il processo del peer reviewing. In questo modo il contributo delle comunità indigene va perduto, arrecando un enorme danno non solo alle comunità indigene dell’Artico, ma anche dell’intera popolazione del Pianeta che ben presto dovrà fare i conti con gli stessi sconvolgimenti climatici.
Complica il quadro il fatto che l’agenda di ricerca è stabilita prevalentemente al di fuori delle comunità, che per questo si sentono escluse, nuovamente marginalizzate. Eppure le cose si stanno muovendo. La complementarietà fra la narrazione indigena e quella scientifica è ormai riconosciuta in letteratura e questo apre a svariate possibilità di collaborazione reciproca, pur riconoscendo che molti problemi restano sul tappeto.
Il valore dell’educazione
Pearl crede fortemente nel valore della collaborazione tra scienza occidentale e conoscenza indigena: “Sono solo una forte sostenitrice del fatto che queste connessioni sono presenti e che sono significative e intenzionali e quel riconoscimento è dato a quegli indigeni che potrebbero non aver frequentato 15-20 anni di scuole per arrivare ad un dottorato di ricerca, ma il loro tempo sulla terra e il tempo trascorso intorno all’ambiente e alla scienza che li circonda probabilmente ha più valore in molti modi di tutta l’educazione”.
Pearl però essendo tra le prime donne a ricoprire un ruolo accademico così importante ed essere a capo di una delle più importanti società indigene d’Alaska, crede anche nel valore dell’educazione e di come questo potrà cambiare il futuro dei giovani della popolazione indigena: “Considerando la connessione tra scienza e conoscenza indigena, è interessante riproporla nell’istruzione ma anche nelle aziende”. Sarebbe di grande aiuto per la scienza permettere agli studenti nativi dell’Alaska di integrare, supportare e accrescere le loro conoscenze tramandate dalla famiglia nell’ambito dell’educazione. Potremmo ricevere dati più puntuali e quindi interventi più significativi per affrontare il cambiamento climatico.
Il futuro dell’Artico
Nella pratica, avere opportunità di formazione e business per le popolazioni indigene dell’Artico, significa la possibilità di sedere ai tavoli internazionali venendo riconosciuti dalla comunità internazionale. L’istruzione porta a raggiungere ruoli importanti nel business: “Una delle cose che penso sempre sull’istruzione è che ciò che significa più istruzione, significa più opportunità, più possibilità di uno stile di vita alto – spiega Pearl – E questo è fondamentale soprattutto per le piccole comunità rurali e i luoghi isolati”.
Pearl ha speranza che le comunità indigene trovino sempre più posto nelle trattative internazionali: “Spero davvero che gli indigeni siano al tavolo con i decisori per le future politiche dell’Artico”. Ed è determinata a lavorare in questa direzione.
Ascolta il podcast: Il cambiamento climatico nell'Artico
“Vite che cambiano col clima”, è un format che racconta il cambiamento climatico attraverso 10 storie straordinarie, ideato da Sara Moraca, giornalista scientifica e ricercatrice, e curato da Sorgenia, la prima greentech energy company italiana.