Il presidente della no-profit, Matteo Flora: “Il vero problema è culturale, perché non si attribuisce ancora la giusta gravità a un abuso devastante per le vittime. Combattiamo questo fenomeno con la tecnologia e con la sensibilizzazione”
“Mi piace definire Permesso Negato come un’associazione no-profit che ha l’obiettivo di chiudere al più presto. Saremmo felici di chiudere domani. Perché quando non esisterà più il revenge porn non avremo più motivo di continuare”. A parlare è Matteo Flora, docente a contratto in “Corporate Reputation e Storytelling” e Ceo della Digital reputation company The Fool, oltre che presidente di Permesso Negato, la no-profit di promozione sociale che si occupa del supporto legale, tecnologico e psicologico alle vittime di image based abuse e pornografia non consensuale. Permesso Negato ha pubblicato a novembre i dati del report “State of revenge 2022”, da cui emergono dati allarmanti. A oggi due milioni di italiani sono stati vittime di revenge porn, mentre 14 milioni hanno visto le immagini di vittime, e un italiano su sei ha prodotto contenuti pornografici. In questo contesto Permesso Negato ha gestito 6mila casi dal 2019, di cui 2.500 soltanto nell’ultimo anno, per un totale di 4 milioni di contenuti rimossi dal web.
Come nasce Permesso Negato?
La nostra esperienza inizia nel 2019: ho una società che si occupa di reputazione online, e mi capitava spesso, in quel periodo, di entrare in contatto con persone che ci chiedevano supporto come vittime di pornografia non consensuale. Si trattava a volte di situazioni disperate, di famiglie e di giovani che avevano già tentato di farsi aiutare da altre realtà, spendendo molti soldi e non venendo a capo della situazione. Abbiamo incontrato persone disposte a ipotecare la loro abitazione per risolvere il problema, e noi abbiamo risposto offrendo la nostra tutela gratuitamente. Con il crescere dei casi, insieme ad alcuni amici avvocati, abbiamo così pensato di creare un’associazione dedicata, rendendoci utili grazie all’implementazione di metodologie tecnologiche ad hoc. Abbiamo potuto contare fin dall’inizio sul supporto di Meta, che ci ha finanziati, e che proprio in quel periodo stava lanciando l’iniziativa stopNcii.org (stop non consensual intimate image abuse). Attorno al nostro progetto abbiamo riunito persone con provenienze diverse, dal people management, agli esperti legali, come solo per fare qualche esempio d’eccellenza Giuseppe Vaciago, uno dei luminari del diritto delle nuove tecnologie in Italia, Nicole Monte e Lucia Maggi.
Cosa è cambiato con l’esplosione dell’emergenza Covid-19?
La pandemia ha amplificato questi fenomeni. Si sono moltiplicate le condivisioni di contenuti pornografici non consensuali, ed è esploso il problema dei gruppi Telegram, che sono un primato tutto italiano e che purtroppo è amplificato dalla stampa. Dalle nostre rilevazioni emergono correlazioni che fanno vedere che ogni volta che un gruppo viene citato dai mass media esplode il numero di persone che si iscrivono.
Quali altre partnership avete chiuso nel tempo?
Tra le più significative ci sono quella con Google e quella – quest’anno – con MindGeek, nome che di primo acchito potrebbe sembrare non significativo, ma che in realtà è quello della società che gestisce l’80% del mercato della pornografia, e che ovviamente ha tutto l’interesse a munirsi di strumenti per la rimozione dei contenuti online non consensuali.
Come si è sviluppata nel tempo la vostra attività?
Ci siamo impegnati ad aumentare progressivamente i servizi. Siamo partiti dalle segnalazioni dei contenuti non consensuali e dalla gestione dei cautelamenti forensi, fino a partire quest’anno con il supporto psicologico per le vittime. Si tratta di una sorta di primo soccorso psicologico, con un pacchetto che arriva a tre sedute gratuite da un’ora l’una. È un sostegno fondamentale, perché le statistiche che oggi abbiamo a disposizione ci dicono che la prima risposta che il 51% delle vittime ha dopo aver subito un episodio di revenge porn è di tentare il suicidio. L’assistenza immediata è dunque il momento più importante in assoluto. E nel frattempo abbiamo fatto anche tanta divulgazione, con parecchie migliaia di ore ogni anno.
Possiamo considerare la pornografia non consensuale come un reato di genere?
In realtà starei molto attento a non farlo, perché i dati ci mostrano una situazione diversa. Si tratta anche di un problema di terminologia, perché se per semplificare si tende spesso a considerare come sinonimi il revenge porn con la pornografia non consensuale, separando le due voci si ottengono risultati molto diversi. Possiamo trovarci di fronte al fidanzato che per vendetta diffonde i video porno della ragazza che lo ha lasciato, ma anche a episodi di sextorsion, di persone cioè adescate in rete e poi ricattate con la minaccia della pubblicazione dei loro video pornografici. Se nel primo caso le vittime sono per il 70% donne, nel secondo sono per il 70% uomini sopra i 40 anni. E per quest’ultimo insieme abbiamo motivo di credere che i dati siano sottostimati, perché in molti preferiscono non denunciare.
Perché gli uomini denunciano meno delle donne?
Le donne hanno acquisito la consapevolezza che esiste un tessuto sociale che le protegge quando sono vittime di questo genere di abusi, nonostante persista ancora il problema del victim blaming. Per gli uomini prevale ancora invece la vergogna, ed è più alta la percentuale di chi subisce il ricatto senza denunciare. Tutto questo nonostante i casi siano ancora in aumento lineare, con una quantità impressionante di italiani che usufruiscono di questi contenuti e spesso contribuiscono a diffonderli senza rendersi conto della gravità delle loro azioni.
Un problema prima di tutto culturale…
Sì, perché se da una parte c’è più consapevolezza dell’esistenza del fenomeno, dall’altra non se ne percepisce ancora pienamente la gravità. Se la violenza fisica su una donna è comunemente considerata un gesto gravissimo e condannato socialmente da tutti, questo genere di soprusi è invece ancora tollerato dalla gran parte delle persone come se si fosse nella sfera degli scherzi o delle cose divertenti. Il fenomeno del revenge porn, però, non si potrà dire risolto finché non cambierà questa dinamica perversa, finché si percepiranno queste azioni alla stessa stregua della violenza fisica. Tutte le soluzioni tecnologiche che mettiamo in campo saranno soltanto dei palliativi finché non arriverà una soluzione culturale.
Che obiettivi vi siete dati per il futuro?
Ci piacerebbe investire di più in awareness, riuscire a strutturare il racconto delle problematiche per mettere questo strumento a disposizione dei docenti e in generale delle persone. E poi vorremmo mettere in piedi qualche collaborazione in più sul territorio, perché la capillarità dei presidi è sempre molto importante, sia con autorità ed enti pubblici sia con iniziative ed associazioni private, che siano in grado di affiancarci e rendere il digitale e l’online meno “lontano” dalle vittime.
E infine vorremmo riuscire a trovare abbastanza budget per fornire il supporto legale al contenzioso per le vittime, oltre all’orientamento legale che già facciamo.