Site icon Sorgenia UP

Cremesina: una pianta dai mille usi

Perché parliamo di questa specie?

Anche se ormai entrata nell’immaginario collettivo come inattesa ma benvenuta compagna dei nostri giardini, la cremesina è pianta originaria del Nord America oggi ben radicata nel territorio italiano, e quindi capace di scombussolare agilmente e, senza dare nell’occhio, i già malmessi equilibri degli habitat da lei prediletti, quelli delle pianure e colline nostrane. Per fortuna, nonostante le dimensioni, è specie erbacea facilmente rimovibile, nonché utilizzabile con (moltissima!) accortezza nelle nostre cucine.

Identikit

Nomi comuni: cremesina, uva turca, pianta dell’inchiostro, spinacio della Virginia

Nome scientifico: Phytolacca americana

Caratteristiche fisiche: pianta erbacea che matura raggiunge grandi dimensioni (comparabili con quelle di molti arbusti legnosi), la cremesina è dotata di caratteristici fusti rosso-violacei dai quali si diramano numerose foglie di colore verde brillante. In estate sulle parti terminali si sviluppano grappoli oblunghi ricchi di bacche nere, che danno il nome comune italiano di ‘uva’ alla pianta. Ogni parte della pianta è altamente tossica, ma ciò nonostante i giovani getti, quando verdi e non ancora screziati di rosso, possono essere consumati previa lunga bollitura anche dall’uomo, come sanno bene i buongustai in Nord America.

Caratteristiche comportamentali: i numerosi e vistosi frutti neri sono evolutisi per risultare molto appetibili agli uccelli, che ingerendo e poi espellendo i numerosi semi contribuiscono indirettamente all’espansione della specie nel territorio di riferimento; tuttavia gli stessi semi non risultano altrettanto golosi per altre tipologie di vertebrati, per i quali la pianta rimane non integrabile nella dieta.
La parte aerea muore ogni anno alla prima gelata autunnale, ma il fittone sotterraneo contribuisce a mantenere la pianta viva oltre l’inverno e a fungere da serbatoio per nuovi getti la primavera successiva.

Habitat d'elezione

L’habitat originario di questa pianta è la fascia orientale del continente nord-americano, quella che va dal Canada al Golfo del Messico, ma a partire dall’arrivo dei coloni europei essa si è velocemente diffusa prima in tutto il continente, e poi anche nel resto del mondo. Oggi è pianta comunissima in ogni regione d’Italia, specie in zone soggette a forte disturbo antropico (massicciate, bordi di sentieri e strade asfaltate, giardini, parchi urbani, etc…) dagli 0 ai 400 metri di altezza sopra il livello del mare. Al momento una grande porzione della Puglia rappresenta l’unica area della penisola dove la pianta permane ma senza riuscire a naturalizzarsi.

Rapporto con l'uomo e stato di conservazione

Nel suo originario areale la cremesina viene consumata da millenni, quando fresca, come inchiostro o pianta medicinale, oppure, quando cotta, come elemento di contorno per numerose pietanze tradizionali, oggi valorizzate all’interno di numerosi festival locali (ecco quindi spiegato un altro nome comune, ‘spinacio della Virginia’). L’elevatissima tossicità di ogni sua parte e gli sporadici casi mortali non hanno quindi scoraggiato generazioni di nativi dall’esplorarne le varie proprietà, arrivando così a scoprire le più disparate applicazioni. Oggi questo filone di cultura etnobotanica non è perso, ma anzi esaltato da moderne ricerche scientifiche in ambito medico, che stanno indagando trattamenti per l’AIDS e altre patologie gravi in virtù degli speciali composti contenuti nei suoi tessuti vegetali.

Cosa possiamo fare noi?

Anche se molto bella, voluminosa e quindi appariscente, noi cittadini italiani dobbiamo scoraggiare la diffusione della cremesina a spese della vegetazione autoctona, con cui è in competizione sia in termini diretti che indiretti. Infatti il danno costituito dalla sostituzione ad altre specie in habitat delicati si manifesta sia attraverso l’occupazione concreta di spazio, che attraverso la scelta alimentare degli uccelli, i quali arrivando a preferire i suoi semi a quelli di altre essenze autoctone non contribuiscono più alla propagazione di quest’ultime.
Per rimuovere gli esemplari isolati di questa specie, che fortunatamente non va mai a costituire densi agglomerati, è sufficiente la rimozione manuale tirando dalla base del fusto principale verso l’alto, e meglio se sfruttando le circostanze di un suolo già umido o volutamente bagnato, in quanto meno resistente allo strappo.

Exit mobile version