Perché parliamo di questo fenomeno?
Quando parliamo di organismi vegetali complessi, quali alberi, arbusti ed erbe, dobbiamo sempre tenere a mente il loro limite più grande, ovvero la sostanziale immobilità. Costretta a radicarsi su substrati di ogni sorta per ottenere vitale nutrimento e necessaria stabilità, il mondo vegetale si è trovato così costretto ad ingegnarsi innumerevoli volte per arginare l’ostacolo: una soluzione efficace? La zoocoria!
Con questo termine si intende il trasporto (‘coria’), volontario o meno, di un seme o di un frutto da parte di un animale (‘zoo’) in un luogo più o meno distante dalla pianta madre. Così, per esempio, il seme può viaggiare per chilometri nello stomaco di un grande passero, oppure spostarsi di qualche metro stretto tra le mandibole di una piccola formica. L’importante è arrivare integri e fertili al traguardo, e non importa con che mezzi!
In questo vasto quadro di viaggi vegetali a spese di organismi animali, spicca su tutti un connubio particolarmente vincente, spettacolare esempio di coevoluzione: alcune piante infatti hanno sviluppato frutti aguzzi, ricoperti di spine minute o di piccoli ganci, adatti a rimanere attaccati alla pelliccia di ignari mammiferi di passaggio tra la vegetazione più bassa. Si è trattato quindi di sfruttare passivamente una risorsa mobile e ubiquitaria nel meno dispendioso dei modi.
La zoocoria tramite mammiferi non si limita però ai soli rappresentanti selvatici: ogni animale abbastanza peloso può tornare utile, anche se domestico! E così, un’attività umana vecchia di millenni, la pastorizia transumante, si è trasformata nel tempo in un formidabile fattore di trasformazione del paesaggio, andando a sopperire con i grandi quantitativi dei suoi capi (pecore e capre su tutti) alle defezioni selvatiche causate dall’espansione umana e conseguente sterminio delle popolazioni selvatiche.
In questo approfondimento scopriremo alcuni esempi di piante che hanno tratto storicamente vantaggio dalla pastorizia transumante nella propria lotta alla sopravvivenza dentro i confini della penisola italiana. Infine, alcuni suggerimenti in caso di incontri troppo ravvicinati da parte del vostro animale da compagnia.
- La lappola
La lappola, o bardana maggiore (Arctium lappa), è una grande pianta erbacea, con foglie voluminose e fusti capaci di raggiungere anche i due metri di altezza. La notevole dimensione non è casuale, bensì un accorgimento ulteriore per massimizzare il successo di attecchimento dei suoi spinosi frutti sferici, che possono così rimanere invischiati al pelo di una più vasta gamma di mammiferi. La particolare forma della spina del frutto, che presenta un caratteristico gancio rigido all’estremità, è il congegno alla base del velcro, il sistema di chiusura brevettato nel 1955 dallo svizzero George de Mestral proprio partendo dall’osservazione in natura della pianta attaccata ai propri indumenti. - La nappola minore
La nappola minore (Xanthium strumarium), nonostante non ne sia parente, prende il nome comune proprio dalla lappola (Arctium lappa), per la identica capacità di rimanere attaccata al pelo (o agli indumenti) di ospiti ignari. A differenza di quest’ultima, tuttavia, i coriacei frutti della nappola possono diventare molto duri, massimizzando la loro sopravvivenza nell’ambiente in attesa di trasporto passivo. Fate quindi attenzione a non pestarli a piedi nudi! - L’erba medica polimorfa
L’erba medica polimorfa (Medicago polymorpha) è uno stretto parente della ben più nota erba medica (Medicago sativa), comune pianta foraggera i cui bei fiori viola abbelliscono i cigli delle strade di molte delle nostre campagne. La medica però non presenta semi adatti alla zoocoria, invece presenti nella polimorfa: come piccolissimi e leggeri soli raggianti, i semi di quest’ultima possono fare anche affidamento al vento per arrivare al pelo di un mammifero, aggiungendo un’ulteriore carta al proprio mazzo nella competizione per la sopravvivenza. - L’orzo selvatico
L’orzo selvatico (Hordeum murinum), parente dell’orzo coltivato (Hordeum vulgare), è pianta infestante di numerose campagne, che affida generalmente la dispersione dei propri esili frutti oblunghi al vento (anemocoria). Tuttavia, questi si prestano facilmente al rimanere impigliati nel pelo degli animali o, peggio ancora, nelle parti più morbide quali bocca e zampe. In questi casi possono provocare piccole ma dolorose ulcere, che non curate possono infettarsi. - Il pabbio
Le varie specie di pabbio che popolano la nostra penisola (su tutti Setaria italica e Setaria pumila), al pari dell’orzo o del grano, sono specie che i pastori hanno imparato a conoscere bene fin dall’alba dei tempi, quando le migrazioni dalla Mezzaluna Fertile (pressappoco l’attuale Iraq) spostavano grandi masse di bestiame con annesse famiglie umane verso l’Europa occidentale. Furono questi spostamenti a favorire enormemente le suddette specie vegetali, pabbio italico incluso. Non vi tragga tuttavia in inganno il nome: si tratta infatti di pianta asiatica, ma arrivata nei nostri territori così tanto tempo fa da essere ritenuta autoctona dai primi tassonomisti.
Cosa fare con queste piante "scroccone"?
Anche se sicuramente la pastorizia non è più pratica diffusa come un tempo, il ruolo ecologico del gruppo di piante appena visto non si esaurisce!
Vi basterà infatti portare il cane a fare un giro in campagna per incontrare frequentemente almeno una di queste specie. Dotatevi quindi degli strumenti giusti per rimuoverle con precisione i frutti, ma senza improvvisare o ledere ulteriormente l’animale. Chiamate il vostro veterinario e prenotate una visita d’urgenza per rimuoverli nella maniera più indolore possibile.
