Turismo sostenibile in Kenya: 3 cose da non fare durante le vostre vacanze

Scritto da Gaia Dominici
Storyteller, vive nella savana in Kenya insieme a suo marito e a sua figlia raccontando la loro vita Maasai, portando il suo punto di vista su scelte di vita sostenibili

Che si intende per turismo sostenibile? Quali sono le azioni da non compiere durante le vacanze? La guida di Siankiki

Si parla spesso di turismo sostenibile ma ho altrettanto spesso la sensazione che non si comprenda mai a pieno il reale significato di questo concetto.

Che cosa significa, davvero, turismo sostenibile?

È un concetto che include diversi aspetti delle attività turistiche che solitamente si fanno quando si è in viaggio. La sostenibilità in questo particolare caso però non si limita solamente alla sfera ambientale ma si estende anche a quella culturale, sociale e della fauna selvatica locale del paese in cui ci rechiamo. Non mi piace parlare di cose che non conosco e che non ho vissuto in prima persona, quindi mi limiterò a parlare di turismo sostenibile in Kenya, paese in cui vivo da quasi dieci anni e che ho imparato ad amare e rispettare anche e soprattutto attraverso i miei sbagli.

Di cosa parliamo?

Diversità e principi universali per viaggi sostenibili

Prima di addentrarci nel vivo della questione vorrei però che teneste ben chiaro nella vostra mente che ogni paese, ogni cultura, ogni etnia è diversa e incomparabile. Ciò che potreste vivere e vedere in Kenya potreste non ritrovarlo in altri stati africani e ancora, ciò che potreste vivere e vedere all’interno di un’etnia potreste non ritrovarlo presso altre tribù, pur trovandosi nello stesso paese. La diversità dei contesti ambientali, sociali e culturali va di pari passo con il cambiamento del concetto stesso di sostenibilità: sostenibilità non è un qualcosa di immutabile benché si basi su principi universali. Per fare un esempio molto pratico ed aiutarvi a comprendere meglio ciò che intendo, pensiamo all’alimentazione vegana che sempre più viene descritto come modello alimentare sostenibile nei paesi occidentali e pensiamo poi all’alimentazione carnivora delle popolazioni indigene. Per il mondo occidentale un’alimentazione priva di carne animale è sinonimo di sostenibilità; per moltissime, se non tutte, popolazioni indigene un’alimentazione vegana sarebbe sinonimo di carenza alimentare e perdita di identità culturale profondissima. Ma perché accade questo? Perché la produzione e consumo di carne nelle società non indigene non è più sostenibile sotto molteplici aspetti mentre la produzione (a chilometro zero) e il consumo di carne nelle società indigene non rappresenta in alcun modo un impatto negativo sul nostro pianeta. Ora capite che cosa intendevo quando poco sopra vi spiegavo la flessibilità che la parola “sostenibilità” dovrebbe mantenere al suo interno per poter essere davvero applicata in ogni situazione e circostanza?

Ma come detto prima, è possibile riconoscere e stabilire alcuni principi universali su cui basare le nostre valutazioni e attraverso cui trarre le nostre conclusioni. Ci sono aspetti, sfumature, magari, per occhi inesperti, da tenere ben presenti prima di affrontare un viaggio in Kenya ed in Africa, più in generale, proprio per evitare di cadere in attrazioni turistiche che hanno impatto negativo sulla popolazione, sull’ambiente o sulla fauna selvatica. Ed evitare anche di contribuire allo sfruttamento di determinate tematiche o situazioni, arricchendo chi ci guadagna invece di aiutare chi viene sfruttato. Ho cercato di semplificare il più possibile questo argomento che potrebbe risultare ostico in principio, descrivendovi i tre punti cui dovreste prestare maggior attenzione prima e durante un viaggio sostenibile in Kenya!

Siete pronti? Cominciamo!

Tour della povertà

Quando si parla di Kenya la nostra mente produce subito una combinazione letale: Africa uguale povertà o, peggio ancora, Africani uguale poveri umani bisognosi. Ed è proprio qui che subentra dentro di noi quello che in gergo tecnico viene chiamato “white savior syndrome” ovvero “sindrome da bianco salvatore”. Non si sa di che cosa abbiano bisogno “gli africani” (lo virgoletto per estremizzare la generalizzazione che spesso si fa verso popolazioni completamente diverse tra loro ma unite da un unico semplice fattore: la pelle nera) ma io, persona bianca, persona privilegiata, posso aiutarli. Come? Neanche questo è chiaro ed è proprio in questa mancanza di chiarezza che si fanno strada organizzazioni, anche turistiche, con progetti che uniscono turismo e volontariato volti a sfruttare la povertà di alcuni contesti sociali del paese camuffandoli come attività turistiche sostenibili ed etiche. Dopo aver fatto numerosi safari dentro ai parchi nazionali e aver nuotato in acque cristalline da sogno si va a visitare una scuola, un orfanotrofio, un villaggio indigeno, si comprano caramelle, si portano vestiti usati ed ecco che abbiano la sensazione di aver visitato Il Vero Kenya. Certo, questo è quello che chi sfrutta la povertà per un tornaconto personale vuole farvi credere: la povertà è il vero volto del paese, la vera identità del continente.
Non è così.
Non lo è, e abbiamo bisogno, se vogliamo essere viaggiatori consapevoli, di capirlo. Come? Leggendo, studiando, ascoltando, mettendoci in dubbio. Quando le persone mi chiedono: “Gaia, come faccio a capire se quello che il tour operator mi propone è sostenibile?” Io rispondo sempre la stessa cosa: “Semplice, domandati se è un’attività che faresti anche in Italia, o in Inghilterra, o in Francia.” Quando organizzate una vacanza a Roma oppure a Londra o Parigi, andreste mai a visitare una comunità di persone che vivono in condizioni disagiate? Fareste mai un giretto a consegnare caramelle in un asilo? La risposta è lì, davanti e dentro di voi: No, non lo farei!
E allora perché lo considerate normale se lo fate in Kenya o in Mozambico o in Burkina Faso? Perché scattarsi selfie con bambini neri minorenni è normale, è accettabile e non lo fate anche con i bambini bianchi che giocano ad Hyde Park a Londra? Il modo migliore per capire se quell’attività è etica e sostenibile è quindi chiedersi: lo farei anche se fossi in Provenza o in Cornovaglia? Se la risposta, e io so che sarà così, è no allora non dovreste fare quell’attività in nessun altro luogo del mondo. Le condizioni di disagio, le situazioni di povertà, sono ovunque, non solo in Kenya, non solo in Africa.

Attività turistiche che consentono contatti fisici con animali selvatici

Quanti video su Instagram e su altre piattaforme social hanno ormai sdoganato e tristemente normalizzato il contatto fisico con animali selvatici? Tanti. Troppi. Content creators che vivono di likes, commenti e visualizzazioni sono sempre alla ricerca del video più estremo e della foto più tenera. Che sia soggiornare in hotel di lusso che a colazione permettono alle giraffe di avvicinarsi al vostro tavolo per una foto da dieci mila likes o visitare fondazioni volte alla conservazione di determinate specie che vi concedono di dar da mangiare agli animali da loro salvati. Un tempo, quando ero bambina, si andava allo zoo ed era considerato normale. Oggi sugli zoo per fortuna tante persone sono informate e consapevoli della loro problematicità. Purtroppo però stiamo assistendo ad una nuova evoluzione del problema. Gli animali non sono in gabbia e non vengono ammaestrati e dunque è più difficile coglierne gli aspetti negativi ma come professa quotidianamente Chiara Grasso, etologa specializzata in turismo sostenibile in Africa, il contatto fisico tra essere umano e animale selvatico va sempre evitato. Che sia una povera giraffa rimasta orfana di madre o un elefante salvato dai bracconieri, il contatto uomo-animale selvatico non deve essere mai permesso. Purtroppo però i contenuti digitali volti a stupire, a far sognare chi li guarda, hanno reso ancora più fertile un terreno che già lo era a sufficienza prima del loro avvento: farmi fotografare mentre accarezzo un ghepardo o dò da mangiare ad un leone diventano un modo per affermare noi stessi in un mondo virtuale dove sembra di dover essere sempre i più speciali e dove ogni esperienza deve essere sempre la più estrema e la più unica. Gli animali selvatici non vanno in alcun modo toccati o nutriti e qualsiasi tour operator vi porti a fare esperienze di questo genere non vi sta offrendo un’attività etica e sostenibile.

Strutture turistiche non attente all’energia rinnovabile

Negli ultimi anni in Kenya e più in generale in Africa si è assistito ad un aumento esponenziale dell’impiego di fonti di energia rinnovabile. L’utilizzo di pannelli solari qui in Kenya è molto comune ecco perché il mio terzo consiglio è proprio quello di chiedere al vostro tour operator di riferimento di farvi soggiornare, ove possibile, in strutture che utilizzano questo tipo di energia. Molte strutture attente a questo genere di tematiche hanno anche studiato modi per riutilizzare l’acqua piovana, magari per innaffiare l’orto da cui successivamente colgono frutta e verdura per il loro ristorante. Insomma, più il sistema è circolare più molto spesso è sostenibile. Andare in grandi hotel con alimenti importati dall’estero o non comprati localmente (o non seguendone la stagionalità) è davvero un’occasione sprecata per sostenere e usufruire di strutture che quotidianamente si impegnano a rendere il nostro pianeta un pochino meno peggiore di come sarebbe altrimenti.

Il cambiamento parte da noi

Potrei andare avanti all’infinito ed elencare molte altre cose che sarebbe meglio evitare di fare in vacanza in Kenya ma credo che per cominciare questi primi tre consigli siano più che sufficienti. Ci tengo anche a sottolineare che non esistono leggi in merito: andare a visitare un orfanotrofio non è un reato così come non lo è dar da mangiare ad una giraffa ma questo non significa che siano attività che hanno un impatto positivo su chi ne è un soggetto passivo. Porsi quesiti, ascoltare divulgatori e attivisti, leggere libri, studiare articoli sono un ottimo primo passo per cominciare a capire meglio cosa è giusto e cosa non lo è. So che richiede molta fatica e so che non è sempre facile farlo ma se vogliamo vedere un cambiamento nel mondo dobbiamo per forza cominciare da noi.