La storia di Lou: note in calce di Cathy La Torre

Scritto da Cathy La Torre
Avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio

L'avvocata Cathy La Torre spiega e commenta alcuni passaggi della Storia di Lou, l'ultimo episodio del podcast di #Sempre25Novembre

“Di Lou mi colpisce subito quella forza eterea che hanno certe creature sovrannaturali. Il suo corpo è esile, i capelli lunghissimi si raccolgono sulle ginocchia. Conosco Lou da tempo, è una sorella e una compagna di lotta, ma stavolta che mi racconta la sua storia di violenza online tra noi è in qualche modo diverso. Lascio che sia il silenzio a creare uno spazio – come si dice – sicuro, fatto di ascolto empatico. Lei è tranquilla, mentre sono io a essere nervosa. Del resto, io sono un essere mortale.
Avete presente i gruppi telegram¹ finiti al centro dell’inchiesta di Massimo Catselli? Gruppi telegram con migliaia di iscritti che condividono non consensualmente foto intime di estranee², ex fidanzate, amiche, sorelle e addirittura figlie. Insieme alla foto qualche volta ci sono le generalità per andarle a prendere sotto casa, intimidirle e violentarle. Forse stai pensando a che tipo di foto hai caricato online. Foto al mare, foto sexy. Vogliono controllare il tuo corpo, ma a essere postate sono anche foto che di sensuale non hanno nulla: non è mai un vestito o la sua assenza a innescare la violenza. Anche online.

Legati a queste chat spesso ci sono dei gruppi della manosphera³, ovvero l’insieme di siti, app, gruppi, forum di uomini che odiano le persone socializzate come donne. Tra questi, i più attivi in Italia, sono forse i redpillatori4: seguaci della filosofia della red pill secondo i quali gli uomini sono sotto il gioco delle donne che gli negano rapporti sessuali poiché viviamo in una società misandrica e ginocentrica.
È proprio dai redpillatori che viene presa di mira Lou, una cui foto viene condivisa su un loro forum. La foto in questione è un’immagine di Lou che digrigna i denti con le braccia alzate. Non si vede nient’altro. Mentre me ne parla capisco subito di quale foto parla, le ho messo un mi piace. In qualche modo avverto la pesantezza di condividere lo stesso spazio, seppure digitale, con delle persone così violente. Ognuna dietro un’immagine profilo centoventicinque pixel per centoventicinque. Chissà se segue anche me. Prima di tutto la foto, con tanto di nickname social, viene postata sul forum per il rito di votazione di quelle che vengono definite dal gruppo come NP: non persone. La votazione stabilisce se l’NP merita il privilegio di venir poi postata nei gruppi Telegram e lì essere stuprata virtualmente5 . A Lou viene assegnato un punteggio di 1.4 su 10 , ma la sua foto viene postata ugualmente. “Puniamo questa nazifemminista6 ”, scrive un utente anonimo. Ci tengo a fare una specifica, perché mi capita di sentire questa parola in giro, in bocca a chiunque, e mi fa arrabbiare perché viene spesso pronunciata senza sapere da dove viene. Nazifemminista è una parola coniata dalla manosfera, appunto, per indicare le attiviste femministe. Questo è uno dei motivi più importanti, secondo me, per non utilizzare mai una parola così carica di odio nei confronti di chi si batte per la parità. Le femministe sono le principali nemiche designate e le attaccano con modalità squadriste, come inviando con centinaia di commenti sotto post o messaggi privati in DM7 o con offese legate al corpo, body shaming8 , o alla condotta, slut shaming9 o con molestie sessuali. Serve a creare una patina di silenzio impaurito quantomeno intorno quello che li riguarda. Quella patina che sento scendere anche su di me, ora, mentre parlo. Non è né sesso né attenzioni quello che vuole un uomo violento. È la paura. “Chi dà il primo colpo?” – Lou si trova a leggere la chat dove viene stuprata da circa trentamila sconosciuti, tutti attorno alla sua foto e in possesso delle sue generalità disponibili online. È spaventata, confusa, e lo sono anche io mentre mi parla, afferrando un lembo del pantaloncino che indosso. È passato del tempo da quando è successo, e io non averne saputo nulla mi getta nello sconforto. Mi chiedo se avrei potuto aiutarla, cosa avrei potuto fare io. Sento i nostri corpi vicini, il suo dolore composto entrami nel petto. Non riesco subito a porle la domanda che mi spaventa di più: come l’hai scoperto?

A dirle quello che stava accadendo è qualcuno dietro un account fake10, che la contatta su Instagram. Anche lui è nel gruppo. Dovrebbe ringraziarlo? Cosa ci fai lui lì? Mi chiedo dietro quanti uomini che ho incontrato per strada, conoscenti, persone della mia quotidianità si nascondano potenziali persone iscritte a quel gruppo. Tempo dopo, Lou poi rintraccerà uno dei suoi stupratori e scoprirà che si tratta di un ragazzino di diciassette anni che si giustifica affermando di essere sotto pressione per la DAD11: questa persona ha più volte minacciato Lou di andarla a prendere sotto casa. Nel caso di Lou, per fortuna, all’enorme violenza psicologica non è seguita violenza fisica. Penso al fatto come chiunque online conosca la città, il quartiere e perfino la strada dove abito. Penso alle stories12 che posto online dove si vedono le persone che amo, quella grande insegna vintage, inconfondibile, che segna il mio portone. Ripenso di colpo a quando un’altra attivista mi ha chiesto se non avessi paura a vivere sola. Allora risposi di no, ma non riesco a darmi la stessa risposta tutti i giorni. Ora, per esempio, non ne sono così certa. Quanto ci vorrebbe a capire dove abito? A scorrere tutti i citofoni della strada, a trovare il mio cognome? Ad aspettarmi seduto su un gradino che torno da un evento a cui sanno che ho partecipato pubblicamente? Potrebbero calcolare la strada per arrivare a casa, magari ho le cuffie della musica e non li sentirei arrivare. Tuttavia, non sento alcuno spazio sicuro per me. Digitale o fisico. Li occupo, entrambi, conscia che non sono stati progettati per me, né per la mia sicurezza. Ma oltre la paura, sentendo Lou, io provo anche rabbia. Quella rabbia che mi spinge a prenderle la mano e a promettere che parlerò della sua storia così da condividerne un pezzetto di peso. Che sarò al suo fianco, con orgoglio, nella lotta. In uno studio della Commissione Europea di ottobre 2021, l’Italia è a quarto posto in Europa per la misoginia legata ai gruppi incel13. Non esistono – secondo me – spazi sicuri, ma esistono persone che li abitano. E loro, possono fare la differenza.

Note

¹Telegram è un’ applicazione per il telefono e il computer che permette di inviare e ricevere messaggi e file (foto video etc). I gruppi su telegram nascono per poter condividere esperienze e commenti, ma nel caso specifico, hanno il solos dopo di inviare immagini pornografiche e dar sfogo ai propri istinti. Telegram diversamente da whatsapp, infatti, non obbliga a mostrare il numero di telefono: è sufficiente dichiarare un nickname.
² Per condividere non consensualmente s’intende l’invio delle immagini ad altre persone senza il consenso di chi, in quell’immagine, è ritratto. Le immagini che vengono scambiate sono di diversa natura: dalle immagini comuni (un selfie, una foto di famiglia) a immagini pornografiche o erotiche. In entrambi i casi, senza il consenso della persona ritratta, non possono essere condivise.
³ La manosphera è, per l’appunto, la “sfera dell’uomo”. Questo termine si usa per identificare insiemi di siti web, forum, blog, libri, gruppi che promuovono la mascolinità, la misoginia e l’opposizione al femminismo.
4 Si tratta di soggetti che aderiscono all’idea “redpill”. Come in matrix, infatti ci viene data la possibilità di scegliere tra la pillola blu, e restare inconsapevoli, e la pillola rossa ossia diventare vigili e conoscere. Questi gruppi sono convinti che la “pillola rossa” sia aprire gli occhi su una visione distorta dei rapporti tra uomo e donna in cui, il primo, risulta dominante sulla seconda.
Uno dei cardini di questa visione è ad esempio che Il valore di mercato di una donna sia dato principalmente dalla sua bellezza (e quindi dalla capacità di attrarre un uomo per riprodursi), mentre il valore di mercato di un uomo è dato dalla sua bellezza e dal suo status socioeconomico (ossia dalla possibilità di garantire la sopravvivenza del nucleo).
5 pur se non riconosciuto, ad oggi, dalla legge assistiamo ad un fenomeno sconcertante. All’interno di questi gruppi telegram, infatti, l’immagine viene posta al centro e contro di essa vengono rivolti insulti e frasi a sfondo sessuale tali da esser paragonabili ad uno stupro collettivo.
6 Si tratta di un termine che viene usato per ridicolizzare e offendere le femministe moderne. Deriva dalla fusione tra nazi (da naziste) e femministe e dovrebbe indicare una concezione del femminile come superiore e del maschile come inferiore. Allo stesso modo il termine viene utilizzato in maniera impropria dalla maggior parte della menosphera per definire qualsiasi donna non sia assoggettata all’idea misogina.
7 Direct message ossia le chat private di Instagram.
8 Si intende il tentativo, attraverso la parola, di gettare vergogna (ossia shame) sul corpo di una donna oggettificandola e abbassandola a mero strumento di compiacimento per lo sguardo maschile.
9 Si intende il tentativo, attraverso la parola, di far vergognare qualcuno (ancora una volta shame) per le proprie condotte sessuali le quali dovrebbero, invece, essere allineate alla richiesta maschile e non alla propria.
10 Fake è un espressione inglese che significa letteralmente “falso”. Viene utilizzata nel mondo di internet per intendere le false identità dietro cui si può nascondere un individuo: immagini non proprie, nomi o nickname inventati e non collegati ai propri veri dati etc.
11 La DAD o didattica a distanza è lo strumento che è stato usato principalmente per il periodo del lockdown e che ha bloccato gli studenti a casa. Sostanzialmente le lezioni venivano frequentate attraverso il pc con telecamera e microfono attivati.
12 Si tratta di piccoli video di 15/60 secondi che vengono pubblicate sui social (Instagram, Facebook e TikTok) e che scompaiono nell’arco di una giornata.
13 Deriva da “involuntary celibate” che si potrebbe tradurre come “involontariamente celibe”. Si tratta di gruppi di persone, per lo più uomini, che motivano il rifiuto di rapporti sessuali da parte di altri soggetti con il proprio aspetto ritenuti, da loro stessi, ripugnante. Si tratta di gruppi online che incentivano, sulla base di questo asserito diritto al sesso anche non consensuale, misoginia, razzismo, violenza e opinioni estremiste.