Il progetto di Benedetta Morucci entra nel vivo. Obiettivo: fare breccia sul mercato valorizzando un prodotto che stava rischiando di scomparire, dai tessili al filato, dalle imbottiture fino ai nuovi utilizzi

Valorizzare la lana italiana con un vero e proprio progetto industriale, all’insegna della sostenibilità e di una visione etica che dia un nuovo valore a un prodotto della tradizione, che con il tempo è stato quasi completamente soppiantato da quello proveniente dall’estero. Parliamo di Lamantera, un progetto ideato e sviluppato da Benedetta Morucci, che proprio in questi mesi entra nel vivo e – dopo una prima fase di ricerca e sviluppo – sta cercando ora la sua via su un mercato che diventa sempre più attento alla sostenibilità e ai principi dell’economia circolare. Benedetta, classe 1987, originaria di Milano, ha un passato nell’industria della moda, e da pochi anni si è trasferita dal Veneto in Abruzzo proprio per realizzare il suo progetto imprenditoriale e di vita.

Di cosa parliamo?

Benedetta, cosa l’ha portata a stabilirsi in Abruzzo e a cambiare vita in modo così radicale?

Se dovessi risalire a quando è stato piantato il seme di Lamantera dovrei tornare ai tempi dell’università, quando ho conosciuto Viola Marcelli, figlia dei fondatori di “La porta dei Parchi”, una bellissima azienda agricola ad Anversa negli Abruzzi, impegnata nella conservazione del territorio e della pastorizia. Siamo diventate grandi amiche, e quando sono andata a trovarla in Abruzzo, ancora da studentessa, mi sono innamorata di questi luoghi e di queste montagne, e anche della scelta di vita della famiglia di Viola. Dopo gli studi ho lavorato per dieci anni nell’industria della moda: un lavoro appassionante in un ambiente orribile. Con il passare del tempo ho capito di non sentirmi realizzata in quel contesto, di non essere la persona che avrei voluto, e nel 2019 ho deciso di prendere un’altra strada. Pensando a un luogo che mi desse serenità e mi trasmettesse bellezza mi è tornata in mente Anversa degli Abruzzi, ho chiamato Viola, e parlando con lei e la sua famiglia è nata l’idea di lavorare per valorizzare la lana italiana sfruttando le mie competenze.

Perché ha deciso di concentrarsi sulla lana italiana?

Oggi la lana italiana non è quasi per niente utilizzata: va al macero in inceneritore o viene interrata, non ha sbocchi di mercato, e il prodotto della tosatura ha un costo di smaltimento molto alto, attorno ai 3,50 euro al chilo, oltre ai problemi per l’ambiente che derivano dal fatto che spesso la lana viene interrata o si tenta di bruciarla. Partendo da queste considerazioni ho deciso di pensare a un progetto per dare uno sbocco di mercato a questa lana, a livello industriale. Con questa idea ho partecipato al bando ReStartup della Fondazione Garrone, sono arrivata seconda e a quel punto ho ottenuto i primi fondi, che mi hanno consentito di sviluppare l’idea stabilendomi in Abruzzo insieme al mio compagno. Eravamo in piena pandemia, e mi sono concentrata sullo sviluppo di Lamantera. Ora da un anno e mezzo viviamo qui, siamo contenti, l’azienda è partita. Sto riuscendo ad arrivare a risultati di ricerca sui materiali a cui nessuno che lavora con le lane italiane è mai arrivato, con un prodotto standardizzato per la produzione industriale. Seleziono gli allevamenti di persona, e sono molto attenta a stringenti criteri di benessere animale, proponendo Lamantera essenzialmente come attività di supporto rispetto ad aziende agricole virtuose. Tutta la lana che acquistiamo e utilizziamo al momento proviene da allevamento biologico certificato Icea.

Perché la lana italiana oggi non ha mercato?

Semplificando, direi che man mano che la lana è entrata stabilmente nel mondo della moda, con la richiesta di un prodotto sempre più standardizzato e vicino alla perfezione, le aziende del settore si sono rivolte sempre più a produttori esteri, come è ad esempio il caso dell’Australia, dove sono cresciuti gli allevamenti intensivi rivolti proprio al mondo del fashion. Questa dinamica ha di fatto escluso dal mercato la produzione italiana e costretto le aziende italiane, che non si sono adattate al nuovo modello e non sono state aiutate per rimanere competitive, a disfarsi della lana prodotta dagli allevamenti sul nostro territorio. La mia ambizione è quella di riportare in vita, grazie a un importante lavoro di ricerca e sviluppo, la lana italiana. Dal fiocco lavato agli imbottiti, dai filati al prodotto finito per il tessile e la maglieria, per reintrodurre questa materia prima nei sistemi industriali, sapendo già che non tutti possono lavorarla, dal momento che non contiene sintetico ed è un prodotto che ha delle irregolarità che devono poter essere gestite.

È riuscita a dare vita a una filiera interamente abruzzese?

Sarebbe stato il mio sogno, ma purtroppo non è possibile: oggi la filiera è disaggregata. A dimostrazione di questo basti dire che nel nostro Paese c’è soltanto un centro che si occupa del lavaggio della lana, e che si trova a Biella. In Abruzzo, inoltre, non ci sono più né filature né tessiture, l’ultima rimasta ora fa solo imbottiti, mentre per il resto in Abruzzo ci sono soltanto poche realtà che si occupano di maglieria.

Come si sceglie la lana?

È fondamentale partire dal principio che non tutta la lana è uguale: alcuni tipi vanno bene per essere filati, altri no. Alcuni possono essere utilizzati per la maglieria, altri per produrre tappeti: dipende dalla natura della materia, dallo spessore, dalla lunghezza. In questo primo anno abbiamo utilizzato 250 chili di lana per i prototipi. Mentre sono stati messi in lavorazione 3.700 chili, provenienti tutti da un unico allevamento ad Anversa degli Abruzzi. Stiamo predisponendo ora le cartelle colori e le campagne vendita. A breve partirò per visitare le aziende potenzialmente interessate al nostro prodotto con una valigia piena di sogni e di prodotti da toccare per apprezzare le loro qualità.

Lamantera riesce a essere competitiva dal punto di vista dei prezzi?

Di certo i costi sono più alti rispetto alla media, ma non così tanto. In realtà la differenza di prezzo è più evidente all’inizio della filiera, mentre quando si arriva al prodotto finito il costo per il cliente finale non è così diverso da quelli dei prodotti dello stesso segmento di qualità. Di certo, in ogni caso, non siamo sul campo della produzione artigianale, dove un maglio può costare 400 euro, che è pure poco ed un prezzo giustificato se si pensa a ciò che propongono alcuni brand, perché ho scelto di applicare le mie competenze su filiere industriali complesse. Diciamo che il nostro prodotto è paragonabile per prezzo a quello australiano, che forse è un po’ più pregiato ma che arriva dall’altra parte del mondo e che porta con sé una serie di problemi etici e di sostenibilità ambientale.

Qual è il valore aggiunto delle vostre lane?

Abbiamo un posizionamento di mercato che funziona per un prodotto di gamma alta. Le aziende che finora sono più interessate sono quelle che fanno arredi, prodotti di lusso durevole, mentre oggi il problema dell’abbigliamento è che non è più concepito come durevole a causa dell’avvento del fast fashion, con cui non si può essere competitivi sul piano dei prezzi. Il potenziale di Lamantera, dal mio punto di vista, è nella progettazione personalizzata, che consente l’integrazione di questa materia prima all’interno di una produzione. Molte aziende che vendono a un pubblico di fascia alta hanno bisogno di raccontare storie di sostenibilità e di attenzione ai metodi di produzione, e noi siamo tra i pochi che questa storia possono offrirla e provarla. Un altro ambito su cui si sta registrando un interesse crescente è quello dell’utilizzo “non convenzionale” della lana, quindi non filati o tessuti, ma imbottiti – dove ovviamente siamo competitivi con le piume ma non con i sintetici – ed eventualmente isolanti per la bioedilizia, se si considerano in questo caso gli scarti delle altre lavorazioni nell’ottica dell’economia circolare.

Quali sono i primi feedback che hai ricevuto dai potenziali clienti?

Ci sono reazioni diverse a seconda di chi sia l’interlocutore. Il mondo dei lanifici, ad esempio, è molto particolare: è caratterizzato da imprenditori che spesso hanno una vision, che si appassionano al progetto e alla possibilità di dare nuovo lustro alla lana italiana. Si tratta di attività che in genere esistono da generazioni, che lavorano con le università per fare ricerca, e che producono per l’alta moda. Di solito sono aperti alla collaborazione, ma preferiscono aspettare che il progetto sia più maturo. Ora credo che sia il momento giusto, credo di poter iniziare a parlare con i lanifici di progetti condivisi, integrando la mia materia prima con la loro lavorazione, per arrivare a presentare il prossimo inverno una lana biologica italiana.