Violenza assistita, Pellai: “Aiutare i più piccoli a non subire le relazioni tossiche”

Scritto da Ettore Benigni
Giornalista

Alberto Pellai, medico e psicologo dell’età evolutiva: “Le vittime sperimentano il fatto che l’ambito familiare, che dovrebbe essere sinonimo di protezione e sicurezza, perde il suo senso. Servono modelli positivi, che mostrino come i comportamenti virtuosi consentano di cogliere il meglio dalla vita”

“Per eliminare la violenza contro le donne non basta soltanto generare un percorso che mostri ai ragazzi lo spettro degli aggressori che non devono essere. Si dovrebbe affrontare il discorso anche in chiave positiva, e oggi ancora nessuno ha imboccato questa strada. Si dovrebbe mostrare ai ragazzi che c’è una via per diventare futuri adulti con competenze emotive e socio-relazionali, capaci di non trasferire nella rabbia il proprio disagio emotivo. Mi piacerebbe che riuscissimo a parlare dei vantaggi dei modelli positivi: la prospettiva di essere belle persone non con l’unico obiettivo di evitare la violenza, ma per cogliere il meglio dalla vita. In sostanza, per fare del bene a sé stessi e non soltanto per non fare del male agli altri”. A parlare è Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, che nel 2004 ha ricevuto dal Ministero della Salute la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica, e che è autore di diversi libri che esplorano alcuni scenari critici, come quello della violenza di genere, mettendo al centro la condizione dei più piccoli e indifesi, i bambini e i ragazzi vittime della violenza assistita.

Oggi i minori vittime di violenza assistita sono invisibili, non sappiamo nulla del loro percorso, di come facciano a rigenerare dentro di sé un‘immagine emozionale della vita.

Professor Pellai, quali sono i rischi della violenza assistita?

La violenza assistita ha un impatto traumatico per il minore, provoca la disorganizzazione del funzionamento mentale. Quello che accade nella mente di un bambino o di un ragazzo che assiste a situazioni di violenza nell’ambito familiare è il rimanere attivato sul fronte emotivo, senza le risorse cognitive per regolare questo stato. Sono circostanze che provocano un senso costante di allarme, di allerta, di paura. Il rischio, inoltre, è che questi giovani diventino “invisibili” nei propri contesti di vita, perché la testa è sempre da un’altra parte, o che introiettino la modalità violenta e che la scarichino nel loro quotidiano, diventando violenti a propria volta. Ma uno degli aspetti più gravi e destabilizzanti è che un bambino o un minore che assista alla violenza di genere in casa sperimenta che il luogo che dovrebbe essere sinonimo di protezione e sicurezza perde completamente questo suo senso. Vuol dire, in altre parole, trovarsi nella condizione di non di non poter più fare affidamento sulla fiducia nei confronti degli altri.

Cosa può rimanere di questo genere di traumi quando si cresce?

La costante è una grande fragilità emotiva, perché si scardina la percezione del mondo come un luogo sicuro, a causa del fatto che le emozioni vengono violentate in modo imprevedibile. Arriva così una sorta di “congelamento emotivo”, dovuto alla necessità di isolarsi, perché il “sentire” diventa causa di disagio, dolore, fatica di stare la mondo, e provoca la necessità di generare una sorta di corazza per non entrare in contatto con la propria storia di dolore. Da queste esperienze i più piccoli imparano che i legami intimi, quelli amorosi, dove dovremmo sperimentare protezione e sicurezza, sono quelli più a rischio, dove si diventi più fragili e vulnerabili. Un altro rischio è quello della dipendenza affettiva, di diventare dentro a una relazione tra persone che chiedono tutto all’altro, il cui stare bene dipende in modo totale dall’altro, una figura di cui non si può più fare a meno.

Al tema della violenza assistita ha dedicato il suo ultimo libro, “La vita accade”: come è nata l’idea e quali obiettivi si è posto per questo lavoro?

Ho voluto raccontare le condizioni in cui gli uomini diventano analfabeti emotivi: è quello che succede quando nelle relazioni intime, amorose e con un figlio, gli uomini rischiano di trasformare tutto in azioni veicolate dalla rabbia, dove le emozioni come la paura e la tristezza non possono essere gestite ed elaborate. Oggi i minori vittime di violenza assistita sono invisibili, non sappiamo nulla del loro percorso, di come facciano a rigenerare dentro di sé un‘immagine emozionale della vita. In “La vita accade” racconto la storia di un uomo che, diventando padre, deve per forza riconnettersi con la storia del bambino che è stato.

È l’occasione per far vedere agli uomini che la relazione amorosa, il legame intimo, il rapporto con un figlio sono occasioni in cui possiamo “abitare” la vita. Quando il protagonista del romanzo diventa padre, grazie al suo percorso emotivo, riuscirà a essere un ottimo genitore, senza rimanere intrappolato nel passato, rigenerando le coordinate di una relazione sana.

Come si fa a mettere i ragazzi in salvo dalla violenza assistita?

Chi si trova dentro al ciclo della violenza intrafamiliare può soltanto interrompere questo ciclo, imparare a venirne fuori chiedendo aiuto, perché non si può fare tutto da soli. È importantissimo che ci sia un lavoro coordinato dei servizi di territorio e una sensibilità che si genera all’interno della comunità locale, a partire ad esempio dai vicini di casa. Credo sia fondamentale essere consapevoli del fatto che ognuno di noi ha un ruolo fondamentale nel proteggere chi ci vive accanto, anche se non è nostro figlio o nostra moglie. A questo si deve aggiungere la sensibilità in ambito scolastico, dove i docenti possono avere l’intuizione di quali siano le criticità per i bambini partendo dai loro comportamenti in classe. Lo stesso vale anche per il pediatra di libera scelta e per i servizi sociali. Tutto questo va nella direzione di permettere ai bambini di generare competenze emotive e nei rapporti con gli altri, per potersi muovere nelle relazioni intime e amorose senza trovarsi intrappolati in relazioni tossiche o disfunzionali.